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Mi è capitato di rado di leggere, nelle parole di un non europeo, una così appassionata evocazione dell’urgenza che l’Europa non dismetta il proprio ruolo e riprenda il coraggio delle proprie ambizioni nello scenario del XXI secolo. Mi riferisco all’articolo di Robert Kagan, americano, scritto per il New York Times e pubblicato dal Corriere della Sera
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Ricordando come in ben pochi anni si sia passati dal chiedersi in quale modo l’Europa avrebbe dominato lo scenario politico del XXI secolo al fatto se oggi l’Europa sarà capace di ritagliarsi almeno una porticina da comprimaria nel nuovo secolo, Kagan rileva con preoccupazione una progressiva perdita di fiducia degli europei in loro stessi, un ripiegarsi continuo e un pessimismo sempre più diffuso circa il proprio futuro. Una Europa della paura, cui mancano leadership forti, capaci di impedire che il ritorno degli interessi nazionali prevalga sul bene comune. Oggi l’Europa, afferma ancora Kagan, rischia di scivolare lentamente nella insignificanza globale e, dice, il fatto serio è proprio che la maggior parte degli europei è in fondo contenta che sia cosi: è molto più difficile infatti fare la superpotenza, assumersi l’onere e la sfida delle responsabilità globali. Meglio rassegnarsi a diventare il coro della tragedia greca, magari inscenando grandi analisi e impietosi giudizi sull’operato degli altri, grandi proteste o clamorose piazzate, piuttosto che pensare di essere tra coloro che cercano di determinare almeno parte della trama. Eppure, dice, l’UE resta una organizzazione miracolosa e nessuno dovrebbe ostacolarne il progresso. La sua crisi è fonte di grande preoccupazione per gli Stati Uniti, poiché viviamo tutti in un’epoca insidiosa. E io come Kagan continuo a preferire che a dominare il XXI° secolo siano potenze democratiche come gli Stati Uniti e l’Europa, piuttosto che i nuovi astri delle democrazie autoritarie rappresentate dalla Russia di Putin e Medvedev e dalla Cina di Hu Yintao.

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In questi stessi giorni, si è svolto il grande spettacolo del G-8 in Giappone. Con due notizie. La prima che continua la saga del coro della tragedia greca: come già al vertice di Bruxelles dei capi di Stato e di governo dopo il no irlandese al Trattato, i Grandi del mondo hanno deciso nulla, o quasi. E’ ben vero che mai i Grandi avevano dovuto affrontare tante crisi tutte insieme, è anche vero che in merito alla questione del petrolio si sono limitati a rivolgere un invito all’OPEC ad aumentare la produzione. Così come hanno lanciato un appello accorato a Cina e India perché riducano le loro emissioni inquinanti. Così sul clima e sull’Africa non è stato deciso nulla, tantomeno sulla crisi mondiale dei prezzi agricoli e si sono ben guardati dal discutere della speculazione finanziaria e di una nuova regolazione dei mercati finanziari mondiali. Figuriamoci ipotizzare una nuova Bretton Woods per stabilizzare l’economia mondiale e garantire nuove basi per la crescita e la sicurezza di tutti.

Se i Grandi non sono in grado, a livello mondiale come europeo, di decidere quasi più nulla, ma solo di fare appelli o inviti, proclami o roboanti dichiarazioni, perché i cittadini dovrebbero fare altrimenti e non pensare che forse ciascuno se la deve cavare da solo in un mondo difficile, insicuro e dal futuro incerto? Perché i cittadini dovrebbero essere responsabili, disposti a pagare un prezzo, se i leader non lo sono? Se gli uni invocano e quasi ricorrono agli aruspici, perché agli altri non è concesso di protestare, di creare corporazioni e difendere ciascuno i propri affari o – quando tutto è perduto – non cedere alla disperazione delle migrazioni di massa o della ribellione?

La seconda notizia è che negli stessi giorni, a Sapporo, è nato quello che alcuni hanno definito il primo vertice ufficiale e pubblico dei "Big Five": Brasile, Sudafrica, Messico, Cina e India", che hanno già stabilito di vedersi in Brasile, il prossimo giugno 2009, un mese prima del prossimo vertice del G-8 de La Maddalena, in Italia. Sono il 42% della popolazione mondiale, solo il 12% della ricchezza mondiale, per ora, con leader che in gran parte devono rendere assai poco conto del proprio operato.

Nel frattempo, nella economia della prima potenza del mondo, emerge un candidato nero, il primo della storia USA, che sceglie probabilmente un vice repubblicano, affermando che le sfide mondiali richiedono oggi coraggio, innovazione e unità.

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Mi vien da pensare che in fondo non è stato poi un male il no irlandese, anche se ha riaperto il vaso di pandora di tutte le contestazioni (dalla crisi del governo austriaco proprio sull’Europa, alla pulsioni antieuropee della Cekia e di parte della Polonia, per non parlare di ciò che è sopito in altri paesi ma pronto a rinascere come nella stessa Germania). Intanto si è bloccato un altro processo un po’ precipitato, che avrebbe portato i capi di Stato e di governo a decidere in gran fretta già in autunno per le quattro future postazioni primarie dell’Europa, senza nessun previo passaggio democratico e di confronto chiaro con i cittadini sul progetto: Presidente stabile dell’Unione, Presidente della Commissione, Alto Rappresentante e persino Presidente del Parlamento…..

Abbiamo davanti ora la grande scadenza delle elezioni europee, che se i nostri partiti e leader politici decidono finalmente di assumere, possono diventare davvero un tornante importante per misurarsi su progetto di futuro. Certo abbiamo bisogno di leader che parlino finalmente di cose concrete, che smettano di occuparsi di dettagli che fanno arrabbiare le opinioni pubbliche dell’uno o dell’altro paese (che si tratti del divieto di pesca del tonno o delle adozioni per le coppie omosessuali) e investano su nuovi progetti di grande apertura, come una Comunità europea dell’energia, un nuovo programma europeo di azione sociale, un piano realmente concreto di partenariato con l’Africa, investimenti strutturali in ricerca e formazione, ecc.

Se guardo al livello del dibattito politico italiano e ai suoi protagonisti, che non sono spesso molto diversi da quelli di molti altri paesi, devo dire che viene forte la tentazione di cedere alla disperazione. Ma se guardo alle grandi e formidabili energie civili che giacciono come depositi inesplorati mi si riapre il cuore alla speranza. E non penso in questo momento alle grandi e medie organizzazioni sociali, che vedo oggi piuttosto spente e anch’esse ripiegate su tante piccole questioni settoriali o sulla gestione di una routine spesso altrettanto lontana dai cittadini che quella delle istituzioni. Ma penso al mondo della cultura e delle arti, alle università, alle organizzazioni giovanili ed anche a tanti protagonisti vecchi e nuovi dell’economia (siano esse imprese tradizionali o imprese dell’economia sociale). Forse tra costoro ci sono tanti che non si arrendono al facile Nirvana dell’accontentarsi di lasciare le cose come stanno e invece pensano che, senza urlare ma lavorando molto, rischiando e anche facendo sacrifici, si possa costruire una trama diversa per un futuro migliore. Se qualche leader saprà mettersi in sintonia con questi giacimenti e far esplodere questa energia vitale, allora l’evocazione di Kagan avrà una risposta e anche noi tutti potremo dormire qualche sonno più tranquillo, pensando ai nostri figli. Altrimenti …. La risposta sta semplicemente, ahimé, nella storia passata del nostro continente. E potremo prendere tutte le impronte digitali del mondo per tenere a bada i nostri fantasmi, ma non saremmo più della partita, perché abbiamo semplicemente smesso di giocare e di credere che, insieme, si potesse vincere.

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Luca Jahier

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ACLI e Comitato Economico e Sociale Europeo

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Bruxelles, 9 luglio 2008
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