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rndi Federiga Bindi
rnLe commissioni Esteri e Difesa stanno discutendo in questi giorni alla Camera il “decreto missioni”, sulla cui base opererà poi la Cooperazione allo Sviluppo italiana. Una parte importate del lavoro della cooperazione è centrata sulla formazione, campo in cui l’Italia eccelle. Nonostante ciò, nei settori della cooperazione gira voce che si intenda eliminare i corsi di formazione residenziali in Italia per funzionari pubblici afghani spostandoli in Afghanistan. Sarebbe un errore strategico, che minerebbe la qualità e l’efficacia dei corsi stessi – in particolare per quanto riguarda la partecipazione femminile – stimolerebbe la corruzione locale e, non ultimo, danneggerebbe la credibilità dell’Italia in materia, come spiegheremo di seguito.

Nel contesto della comunità internazionale operante in Afghanistan, l’Italia è impegnata in prima linea nella cooperazione civile a livello bilaterale, europeo e multilaterale. Sin dalla Conferenza di Bonn del 2001, l’Italia ha investito in Afghanistan una cifra complessiva di quasi 500 milioni di euro per la cooperazione allo sviluppo attraverso i canali bilaterali e multilaterali. I principali progetti bilaterali di cooperazione hanno riguardato finora la cooperazione con le forze di polizia e con la pubblica amministrazione afgana. Nel campo delle forze di polizia, la Guardia di Finanza e l’Arma dei Carabinieri sono particolarmente impegnati nell’addestramento delle forze di sicurezza afgane, e la loro opera è costantemente lodata da tutti gli attori internazionali. Una nuova fonte di praise internazionale è recentemente venuta dall’opera compiuta nel contesto della formazione dei funzionari pubblici. In questo settore, sono state le università italiane ad essere particolarmente coinvolte. Ad esempio, sul consolidamento dello stato di diritto in Afghanistan, l’Università di Roma Tor Vergata, in partnership con l’Università per Stranieri di Perugia, ha realizzato un programma intensivo di formazione per giudici, magistrati, e personale ministeriale intitolato Higher Education Program for Legal Disciplines in Afghanistan (HELDA). Ulteriori iniziative degne di nota nel campo della cooperazione con le istituzioni afgane sono state intraprese nell’ambiente accademico italiano dall’Università di Firenze, Siena, Genova e la Cattolica di Milano. Una menzione speciale la merita poi la sinergia stabilita dal Ministero degli Affari Esteri con la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione (SSPA), l’Università di Roma Tor Vergata e l’Istituto Diplomatico per la realizzazione di programmi formativi per funzionari e diplomatici afgani. I corsi – svoltisi nell’autunno 2010 e 2011 (diplomatici), e nella primavera 2011 (funzionari pubblici generici) – hanno permesso a circa 60 giovani funzionari pubblici afgani di ricevere insegnamenti di primissimo livello in Italia su temi centrali della politica internazionale, del management pubblico, della comunicazione e leadership, ecc.
I corsi per funzionari pubblici sono nati da una specifica richiesta del Ministro degli Esteri Afghano Zalmai Rassoul, subito accolta dall’allora Ministro Franco Frattini. L’equipe incaricata dal Ministro Frattini di disegnare e realizzare i corsi – di cui chi scrive ha fatto parte – è partita da una ricognizione delle esperienze internazionali già esistenti. L’Italia infatti non è il primo paese coinvolto nella formazione dei funzionari pubblici. I tedeschi hanno già un’esperienza decennale che vede ogni anno l’organizzazione di un corso trimestrale (da aprile a luglio) per diplomatici afghani. Anche gli Stati Uniti e l’India sono molto attivi in questo campo. Quindi, sono state organizzate una serie di visite di studio in Afghanistan per meglio capire le necessità locali e come meglio rispondervi, tenendo presente quanto già fatto dal resto della comunità internazionale, sia in loco che fuori dal paese.
La dichiarazione finale della Conferenza Internazionale di Parigi del Giugno 2008 ha lanciato un ambizioso piano di sviluppo per l’Afghanistan, che prende il nome di National Development Strategy (NDS). Il piano si sviluppa attraverso un’agenda quinquennale che stabilisce una molteplicità di obiettivi dal punto di vista della sicurezza, della governance, della crescita economica e della riduzione della povertà e che prevede l’inter-connessione temporale di tre fasi: la stabilizzazione (basata sull’impostazione di una stato di diritto e di un sistema efficace di governance); la fase di consolidamento (basata sul miglioramento della qualità dei servizi pubblici) e la trasformazione (basata sullo sviluppo dei concetti di human security e crescita economica)* . Il passaggio dalla fase di stabilizzazione a quella di consolidamento è, pertanto, determinabile solo in seguito alla costruzione di un sistema efficace di governance, che la NDS affida al National Governance Programme. In questo ambito un’importanza strategica è rivestita dalla Independent Administrative Reform and Civil Service Commission (IARCSC), il cui compito è, sin dal 2002, quello di implementare la riforma della pubblica amministrazione afgana, secondo criteri di merito ed efficienza indicati nell’Afghanistan Programme for Efficient and Effective Governance. La IARCSC è coadiuvata nella sua azione di coordinamento e implementazione della riforma dall’Afghanistan Civil Service Institute (ACSI), che agisce da istituto di formazione della pubblica amministrazione. La struttura didattica dell’ACSI punta ad offrire un’ampia gamma di insegnamenti, tra cui, leadership, management pubblico e finanziario, lingua inglese, IT, ecc.
A livello statuale, l’Afghanistan è una repubblica presidenziale islamica moderata con un presidente e due vicepresidenti. A Kabul il ramo esecutivo è strutturato in 25 ministeri e varie agenzie governative poste sotto l’autorità diretta del presidente o dei vice presidenti. Diversi organi, tra cui il Consiglio Nazionale di Sicurezza, il corpo anti-corruzione, l’accademia delle scienze, commissioni (tra cui la IARCSC) beneficiano di una relativa indipendenza. A livello regionale, lo stato afgano si organizza in 34 province (Wolayat). Le province si suddividono in distretti (Uluswali), composti a loro volta da municipi (Sharwali Wolayat) e talvolta da municipi rurali (Sharwali Uluswali). Idealmente, le amministrazioni locali non sono autonome. Devono implementare le politiche elaborate a livello centrale, senza processo di decisione autonomo e hanno tutt’al più una flessibilità ridotta nell’attuazione di questi programmi. Il (mancato) raccordo tra il livello distrettuale e quello nazionale rappresenta uno dei nodi problematici principali nella ricostruzione del moderno Afghanistan: i due livelli non si parlano e forte è la mancanza di fiducia reciproca.
In seguito al nuovo assetto costituzionale e alla nascita della IARCSC, in Afghanistan coesistono poi due tipi di assunzione pubblica: l’assunzione permanente (karmand) e l’assunzione contrattuale (agir)** . Il corpo dei dipendenti di ruolo è afflitto da una serie di problematiche tra cui la bassa remunerazione, la scarsa motivazione e la limitata professionalità (solo tre funzionari su dieci sono in possesso di un diploma di scuola secondaria, e solo uno su dieci possiede un diploma di laurea). Dall’altra parte è andato formandosi negli ultimi anni un corpo parallelo di funzionari pubblici a contratto, spesso provenienti dalla diaspora, più qualificato, e con remunerazioni mediamente più gratificanti grazie al supporto di programmi internazionali, quali quelli della Banca Mondiale. In aggiunta, le posizioni dirigenziali delle varie agenzie governative sono state affidate dal Management Change Programme della stessa Banca Mondiale ad un gruppo ristretto di personale altamente qualificato con contratti di standard internazionale. Tale complessa architettura, con grandi diversità di qualificazioni e remunerazioni, non favorisce l’efficienza dell’amministrazione centrale e ancor meno delle amministrazioni provinciali e dei distretti dove, l’insicurezza costituisce un grosso ostacolo alla formazione e al dispiegamento di funzionari pubblici. L’impiego pubblico è stato aperto alle donne dopo la caduta dei Talebani. Le impiegate di sesso femminile sono particolarmente presenti nel campo della salute e dell’istruzione, ma negli ultimi anni segnali di progresso si stanno lentamente registrando anche negli altri settori dell’apparato statale. Numerose sono comunque le problematiche che affliggono la pubblica amministrazione afgana sia a livello centrale che regionale. Anzitutto, la presenza di numerosi consulenti internazionali tende a rallentare il processo di crescita e maturazione di una classe dirigente pubblica afgana proveniente dalla classe media del paese che possa assumere stabilmente ed autonomamente la guida del processo di sviluppo nazionale nel prossimo futuro. In aggiunta, la performance dell’amministrazione pubblica viene giudicata nel complesso inefficiente sia dagli osservatori internazionali che dagli stessi cittadini afgani. Le amministrazioni pubbliche, infatti, non rispondono alle aspettative della popolazione riguardo alle principali funzioni statuali, in particolare per quanto riguarda l’omogeneo dislocamento e funzionalità dei servizi sul territorio. Inoltre, la comunità internazionale lamenta un livello di corruzione ancora molto elevato ed in particolare correlato al traffico dell’oppio. I problemi maggiori evidenziati sono pertanto: l’implementazione inefficiente e disomogenea delle politiche nazionali; la mancanza di qualificazione per i funzionari di ruolo dell’amministrazione pubblica; l’eccessiva centralizzazione amministrativa e finanziaria; la scarsa cooperazione e comunicazione tra livello centrale e livello locale; la corruzione; l’emarginazione femminile dai ruoli dirigenziali dell’amministrazione pubblica.
Il progetto formativo finalmente presentato al Ministro Frattini, e da questi approvato e quindi messo in atto, si proponeva di contribuire ad affrontare tutte le problematiche indicate, focalizzando l’attenzione sulla questione del raccordo tra livello centrale e locale dell’amministrazione pubblica.
La realizzazione del progetto ha rappresentato un considerevole salto di qualità per la cooperazione italiana in Afghanistan, in quanto ha risposto a due esigenze: condividere l’eccellenza italiana di istituzioni pubbliche che hanno maturato esperienza nel relazionarsi alle istituzioni e alla cultura afgana; ed inglobare un settore strategico delle istituzioni afgane, quello dei funzionari pubblici, che rappresenta la base su cui costruire il futuro del settore pubblico nazionale. Il primo corso intensivo per giovani diplomatici e quello per giovani funzionari della pubblica amministrazione afgana, tenutosi rispettivamente nell’autunno 2010 e nella primavera 2011, sono serviti da progetto pilota. Il loro successo ha permesso l’organizzazione del secondo corso per diplomatici – tenutosi nell’autunno 2011 – al quale avrebbe dovuto seguire il secondo corso per funzionari pubblici nella primavera 2012. Tuttavia il progetto, regolarmente presentato come previsto nell’autunno 2011, risulta adesso bloccato sine die.
Sostituire tali corsi residenziali con corsi a livello locale, sarebbe un errore strategico. In realtà, una siffatta decisione porterebbe ad una dolce eutanasia del progetto stesso, con conseguente perdita di credibilità per il nostro paese.
Vi sono infatti innanzitutto problemi logistici e di sicurezza: la Cooperazione italiana in Afghanistan non è dotata – specie dopo l’attacco alle sue strutture ad Herat – di locali adeguati con attrezzature multimediali per fare tali corsi. Farli nei locali della IARCS – gli unici decentemente moderni ed attrezzati a Kabul – significherebbe costringere docenti e discenti a giornaliere traversate di Kabul – la IARCS è in periferia – con evidenti problemi logistici e di sicurezza. I locali della IARCS non paiono per altro essere sufficientemente protetti.
Quindi ci sarebbe un problema legato all’offerta formativa, che risulterebbe fortemente ridotta ed impoverita qualora si tenesse in Afghanistan. Nei due mesi circa che i giovani funzionari pubblici afghani passano in Italia, partecipano ad un programma mirato a trasmettere loro una conoscenza dei sistemi amministrativi comparati in prospettiva regionale e internazionale; una familiarità con tecniche di comunicazione e inter-relazione fra vari livelli di strutture di governance, a partire dal modello italiano e europeo; una competenza in alcune discipline di particolare rilevanza per l’esercizio dell’attività professionale, sia di tipo sostanziale che procedurale; un’approfondita comprensione critica delle questioni istituzionali ed amministrative cruciali in Afghanistan in riferimento alla decentralizzazione amministrativa e all’applicazione del principio della sussidiarietà orizzontale e verticale; una capacità manageriale, relazionale e di leadership orientati al consolidamento dei rapporti tra diverse strutture e livelli della pubblica amministrazione; un approccio interculturale orientato alla mutua comprensione e al dialogo. Tutto ciò è possibile solamente coinvolgendo i migliori docenti ed esperti. Generalmente ciascun modulo è insegnato da équipe di docenti ed esperti di 4-6 persone che organizzano il loro modulo in reciproca cooperazione ed in modo armonico. Parliamo dunque di oltre 30 docenti coinvolti per ciascun corso. È evidente che i costi per portare in Afghanistan un tale gruppo di persone – ammesso che sia possibile e che accettino, per gli evidenti problemi di sicurezza – sarebbe proibitivo. Si offrirebbe quindi una qualità formativa ridotta rispetto a quelle che sono le potenzialità italiane.
Un altro problema sarebbe il minore controllo sulla selezione dei partecipanti ai corsi. Nei programmi residenziali, l’Ambasciata e la Cooperazione italiane hanno svolto un ruolo importante nella selezione dei partecipanti – lavorando assieme alle autorità afghane ed in particolare con la IARCSC – in quanto in ultima istanza sta all’Ambasciata assumersi il rischio di dare o meno il visto ai partecipanti. Si sono dunque potute dare indicazione precise circa le preferenze della Cooperazione. In particolare, era stato deciso che a beneficiare del programma fosse l’intero apparato pubblico afgano – coinvolgendo quindi sia il livello centrale che quello livello regionale. Per quanto riguarda il livello nazionale, l’indicazione dell’Ambasciata Italiana di Kabul e dell’Unità Tecnica di Lavoro (UTL) della Cooperazione in Afghanistan era stata quella di dare un’attenzione privilegiata ai ministeri chiave nel settore dello sviluppo. Per quanto riguarda i funzionari di enti subnazionali si era invece deciso di focalizzarsi su giovani provenienti della provincia di Herat, coerentemente con il fatto che l’Italia è responsabile per tale PRT. Questo fatto di mettere insieme funzionari regionali e nazionali provenienti da ministeri diversi – permettendo quindi loro di stabilire un rapporto diretto e di mutua conoscenza e stima – sarebbe verosimilmente vanificato se i corsi si tenessero in Afghanistan, sia per problemi logistici e di sicurezza, sia per i noti preconcetti culturali e politici esistenti tra i vari livelli e amministrazioni. Il fatto che i circa 20 partecipanti vivano insieme – lontani dalla difficile situazione afghana – per due mesi permette invece la creazione di uno spirito di gruppo, la creazione di una conoscenza e stima reciproca che – stando al feedback che è ormai possibile grazie ai social network – continua una volta che i partecipanti sono tornati in patria. La partecipazione attiva dell’Ambasciata e della Cooperazione italiana nella selezione ha inoltre il vantaggio – non di poco conto in Afghanistan – di scoraggiare tentativi di corruzione uno dei problemi che mina maggiormente l’attività di formazione internazionale, come sottolineato anche da un rapporto dell’US Institute for Peace che verrà prossimamente divulgato. Last but not least il legame che si crea con gli organizzatori in Italia e con la Cooperazione in Afghanistan ci permette di effettuare un “controllo ex-post” con follow-up, incontri ecc. uno dei problemi principali della formazione è infatti assicurarsi che i discendi restino nella PA afghana. A tal scopo, è stato inoltre creato un sistema di incentivi selettivi – ad esempio i due migliori partecipanti del corso della primavera 2011 sono appena arrivati in Italia con una borsa di studio – ritagliata nelle more dello stesso progetto – per terminare un Master a Roma. È evidente anche tutte queste misure a medio termine verrebbero meno se i programmi perdessero la loro caratteristica residenziale.
Per quanto riguarda il profilo dei partecipanti, era stato deciso di indirizzarsi a funzionari di medio livello, possibilmente giovani ma con prospettiva di diventare dirigenti, con formazione universitaria ma non necessariamente con esperienza estera, e che non facessero parte di programmi internazionali tali quelli finanziati dalla Banca Mondiale o altre agenzie delle Nazioni Unite. I corsi miravano anche a promuovere una partecipazione di genere equilibrata per favorire l’empowerment delle donne nella funzione pubblica afgana centrale e regionale. Pertanto, pur rimanendo il criterio meritocratico la regola principale per la selezione dei candidati ai corsi, si era prevista una sorta di “azione affermativa” a favore delle impiegate pubbliche afgane al fine di garantire una partecipazione femminile di almeno il 50% dei corsisti. La buona conoscenza della lingua inglese attiva e passiva, il possesso di un diploma universitario, e generalmente un’esperienza nella pubblica amministrazione di 2-5 anni, oltre ad un’età massima di 30 anni – seguendo le indicazioni europee per la definizione dei criteri di selezione nei programmi rivolti ai giovani – completavano i criteri di selezione dei candidati.
Sempre legato al problema della selezione, vi sarebbe – qualora i corsi fossero organizzati in loco – il problema di una ridotta partecipazione femminile, sia in termini quantitativi che qualitativi. L’esperienza ha infatti mostrato una certa reticenza da parte afghana a favorire la partecipazione femminile e molto si è dovuto insistere su questo punto con le autorità afghane. Senza la possibilità di esercitare una pressione grazie alla residenzialità e al conseguente visto, sarebbe difficile pretendere una qualificata partecipazione femminile. In particolare, il problema si porrebbe per le eventuali funzionarie provenienti dalla provincia. Come ci è stato infatti spiegato dalle partecipanti femminili ai tre corsi che sono stati finora organizzati, difficilmente le famiglie acconsentono a mandare le loro figlie a Kabul – cosa che può sembrare paradossale visto che acconsentono a mandarle in Italia – ma che non lo è qualora si pensi alla sicurezza ancora molto precaria che vi è a Kabul. L’esperienza ha anche mostrato come le partecipanti femminili – che sono generalmente di livello assai più alto dei colleghi maschi – si aprano a poco a poco durante il corso. Nei moduli di comunicazione e leadership – che sono stati tenuti dalla NGO americana Women’s Campaing International – abbiamo dunque sperimentalmente introdotto momenti in cui uomini e donne venivano divisi in due gruppi; lì la trasformazione e l’apporto femminile è drammaticamente salito, permettendo uno scambio profondo e assai proficuo tra partecipanti e docenti.
Infine, non portare i potenziali futuri alti funzionari afghani in Italia – perché di questo si tratta – significa perdere una preziosa occasione per fare public diplomacy. L’Italia è un paese che ha in sé innati strumenti di public diplomacy: le sue bellezze naturali, i suoi monumenti, l’arte, la cultura, il modo di vivere, ovvero tutto quello che gli americani chiamano con ammirazione “the Italian Way”. Portare futuri leader – afghani o meno – in Italia per un periodo di formazione significa investire a medio e lungo periodo, che è quello che in Italia purtroppo manca di più. Questo tipo di public diplomacy è quella in cui eccellono i francesi – che portano a studiare in Francia le future leadership dei paesi francofoni – e gli americani, con i vari programmi Visitors. Chi è stato scelto a partecipare in uno di questi ambiti viaggi studio in America, pensi che impatto avrebbe avuto se, invece di passare qualche settimana in giro ad imparare negli USA, fosse stato offerto di partecipare ad un corso a Roma o Milano…
Last but not least, l’esperienza italiana di questi anni non è passata inosservati tra i partner internazionali. I tedeschi e gli americani hanno cercato di capire come la cooperazione italiana – con fondi assai ridotti rispetto ai loro – siano riusciti a dare un prodotto di così alta qualità. I tedeschi hanno proposto di collaborare nei due progetti paralleli rispettivamente con l’Università di Mazar el Sharif e di Herat – anche se anche il progetto di cooperazione con la nuova School of Government di Herat pare anch’esso essere caduto nell’oblio dopo il cambio di governo. Il Dipartimento di Stato – dopo aver dopo aver quasi inutilmente speso 20 miliardi di dollari nel solo 2010 per la formazione dei funzionari in Afghanistan – ha deciso di tornare sui suoi passi e di investire soprattutto nella formazione residenziale in America, portandovi piccoli gruppi di funzionari di circa una ventina di persone. Il primo ad essere formato sarà, questa primavera, un gruppo di diplomatiche donne.
In conclusione, se i corsi di formazione per funzionari pubblici afghani finanziati dalla Cooperazione fossero spostati dall’Italia in Afghanistan, a parità di costi, l’offerta formativa diventerebbe più scandente; il controllo sulla selezione dei partecipanti verrebbe a mancare, andando in particolar modo a colpire la partecipazione femminile. La dilagante corruzione tutt’ora presente in Afghanistan faciliterebbe infatti la partecipazione dei raccomandati (uomini) al posto dei giovani più promettenti, quelli che verosimilmente resteranno in Afghanistan anche nel futuro. Si perderebbe poi un’ottima occasione sia per aiutare a sanare il gap tra provincia e stato, uno delle piaghe endemiche dell’Afghanistan. Infine, si perderebbe un’ottima opportunità di public diplomacy che promuoverebbe il sistema Italia sia nel breve che nel lungo periodo.
Last but not least, qualora l’Italia dismettesse i corsi residenziali in modo improvviso, darebbe ancora una volta prova di mancanza di continuità, che è la ragione principale per cui l’Italia paese viene considerata un partner importante ma inaffidabile; un paese le cui azioni e policies – anche virtuose – vengono sì iniziate, ma troppo spesso non portate a compimento, come sottolinea un articolo del New York Times del 30 gennaio us (http://nyti.ms/w0V1nY), proprio in relazione alle attività di public diplomacy italiane su suolo americano.

*Jake Sherman, “The Afghan National Development Strategy: The Right Plan at the Wrong Time?”, Journal of Security Sector Management Team, Centre for Security Sector Management, Shrivenham, UK, 2009.
**Divion for Public Administration and Development Management (UN), “Afghanistan Public Administration Country Profile”, UNDESA, New York, 2006.

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