|

Qui la chiamano “elections hangover”, la post-sbornia elettorale. In effetti, nel 2008; la mattina dopo la vittoria di Barack Obama sembrava di vedere gli americani – specie i neri – letteralmente volare per la felicità (quella felicità che da noi viene raggiunta solo dopo aver vinto i mondiali di calcio, sigh…). A questo giro invece, persino quelli che il 6 novembre sera erano nervosissimi per una possibile vittoria di Mitt Romney sembravano degli zombi. O, meglio, degli zombi sollevati.

Sollevati per la fine di una durissima, lunghissima e asfissiante campagna elettorale – come ben ha testimoniato il filmino girato su Utube della bambina che piangeva perchè non ne poteva più. Sollevate, specie le donne, per essersi “svegliate nel 2012 e non negli anni ‘50”. Sollevati tutti, perchè si temeva che – dopo il disastro del primo dibattito – Obama non si sarebbe più ripreso. E ad esser sinceri, a guardare i numeri, c’è mancato davvero poco ed il dubbio – poco politicamente corretto e quindi non esprimibile pubblicamente – che Obama abbia in fondo vinto (solo) grazie all’uragano, resta come una fastidiosa pulce nell’orecchio.
Ma Obama ha pur sempre vinto e c’e’ da andare avanti. E gli Americani sono geneticamente un popolo che guarda (solo) avanti, come ci ricorda non solo il discorso di Obama ma anche quello, davvero bello nonostante si dica improvvisato, del perdente Mitt Romney. Due discorsi che, uniti, fanno capire perchè con tutti i suoi difetti gli Stati Uniti sono una grande nazione e gli americani un grande popolo. Due discorsi che – visto che da noi nessuno mai li pronuncerà – ci fa sentire piccini piccini – e non si tratta di una questione di Km quadrati. Il senso del bene comune e dello Stato che c’e’ negli Stati Uniti noi ce lo sognamo.
E adesso, dunque?
Obama ha vinto di margine in termini di voti, ma comodamente in termine di grandi elettori. La vittoria è stata netta e, sopratutto, veloce. Nei giorni passati si era a lungo discusso tra specialisti e nei media dei possibili scenari in caso di impasse. Che invece non c’e’ stata.
Nonostante questo, il Congresso rimane diviso: con il Senato a maggioranza democratica e la Camera a maggioranza repubblicana. Tra le file repubblicane sono aumentati gli estremisti a scapito dei moderati e sono pronti per una nuova stagione di ostruzionismo. Il primo tavolo di prova sarà la riforma fiscale. Lo speaker della Camera, il Repubblicano John Boehner, ha già annunciato battaglia, ma a gennaio i tax cut di Bush scadranno e se i repubblicani non scendono a compromessi prima, per i democratici sarà facile fare una riforma pro ceto medio lasciando agli avversari la difficile decisione di affossarla.
Quindi la questione del debito pubblico e del bilancio federale. Qui la parola d’ordine è non fare come l’Europa: in entrambe gli schieramenti è unanime il consenso che la riduzione del deficit “all’europea”, cioè con tagli e costrizioni, è la migliore ricetta per la depressione – evidentemente solo gli europei (i tedeschi?) non ci sono ancora arrivati.
Il grande assente dal dibattito elettorale, la questione del cambiamento climatico, dopo Frankenstorm sarà finalmente una questione da affrontare – e con urgenza – perchè altrimenti i costi per il paese potrebbero essere devastanti. E questo fa davvero ben sperare per il resto del mondo. Solo se gli Stati Uniti si buttano c’è infatti la speranza di cambiare le cose in materia.
L’altra grande assente dal dibattito elettorale è stata la politica estera – persino nel dibattito ad essa dedicato si è parlato piuttosto di politiche domestiche. Un po’ perchè – grazie ad Hillary Clinton – è stato uno degli atout della prima amministrazione Obama, un po’ perchè Romney e i repubblicati non hanno saputo capitalizzare sul disastro di Bengasi, di politica estera si è parlato poco. Nel 2014 dovrebbe completarsi il ritiro dall’Afghanistan (pur nel dubbio che il paese sia per esso pronto) ma sopratutto c’è la spinosa questione medio-orientale – con in primis la questione iraniana. Sarà interessante osservare le mosse di Benjamin Netanyahu nel prossimo fututo – il leader israeliano chiaramente avrebbe preferito un’amministrazione Romney. C’è tuttavia da dire che le scelte dell’amministrazione Obama pare stiano portando i loro frutti: le sanzioni economiche stanno gravemente danneggiando l’Iran – il Presidente Mahmoud Ahmadinejad è stato convocato in Parlamento sulla questione economica – e quindi forse la scelta sarà quella di lasciare che il tempo (e la parallela dimostrazione di forza israeliana in Sudan) dia i suoi frutti.
Quindi la questione Siria, dove il massacro sta andando avanti indisturbato ricordandoci che tutti i paesi sono uguali agli altri ma quelli con il petrolio o altre risorse naturali lo sono di più. Quanto potrà andare avanti così? Ma, del resto, cosa può veramente fare la comunità internazionale senza rischiare di far saltare l’intera area?
Infine, il gioco delle sedia. Chiaramente questa amministrazione è immediatamente operativa anche se ci saranno un po’ di cambi: essere al governo in America logora e fa guadagnare pochissimo, quindi molti preferiscono uscire prima della naturale scadenza e capitalizzare monetariamente la loro esperienza governativa nel privato.
Il maggiore cambiamento si annuncia al Dipartimento di Stato dove Hillary Clinton ha detto chiaramente che non vuole restare – o meglio che resterà solo fino alla presa di servizio del successore. In pole position ci sono due persone: Susan Rice e John Kerry. Susan Rice, Ambasciatore USA alle Nazioni Unite (ma anche membro del Gabinetto presidenziale) è stata una sostenitrice di Obama della prima ora. Fu l’unica alla Brookings Institutions a prendere leave per buttarsi a capofitto nell’avventura Obamiama ben prima della nomination democratica e già al precedente giro avrebbe voluto fare il Segretario di Stato. Se il Senato fosse stato a maggiorana repubblicana, avrebbe potuto avere problemi in sede di conferma per via delle sue (prime) dichiarazioni su Bengasi, ma adesso che la maggioranza democratica è confermata (e che il rapporto della CIA è uscito), appare di nuovo la favorita. John Kerry, attuale Presidente della Commissione Esteri al Senato – nutriva le stesse ambizioni, ma pare che stia saggiamente pensando che forse rimanere nel suo attuale ruolo può essere più comodo poichè permette maggiore libertà di azione, cosa sicuramente vera visto il livello di ingessatura del Dipartimento di Stato. Certo è che raccogliere l’eredità della Clinton, amatissima Segretario di Stato, sarà assai difficile per chiunque.
La domanda che qui sorge naturale è: che farà “dopo” Hillary? Per ora giura e spergiura che non si candiderà nel 2016, che vuole solo riposare, stare con la famiglia e fare giardinaggio (oltre a scrivere lucrosissime memorie e dare altrettanto pagatissimi speeches in giro per il mondo…) ma i maligni notano come Bill Clinton si sia speso in modo pazzesco in questa campagna elettorale, certo perchè voleva che i Democratici vincessero ma… come dire, non si sa mai…
L’altro che si è speso moltissimo è Joe Biden, attuale Vice Presidente USA. Biden, personaggio dalla caratura davvero straordinaria, ha già provato due volte (e inutilmente) a candidarsi alla Presidenza e non è detto che ci non riprovi da VP uscente. Sia come sia, tanto Hillary che Joe dovranno decidere nei prossimi mesi perchè la prossima campagna elettorale è già alle porte: gli americani, si sa, vivono proiettati nel futuro.
Federiga Bindi
PS per gli appassionati di storie Vaticane, la vittoria di Obama, e quindi del cattolico progressista Joe Biden sul cattolico tradizionalist Paul Ryan, rappresenta anche la vittoria dei cattolici progressisti e Conciliari (e delle American Nuns) sui cattolici tradizionalisti ex Giovanni Paolo II (e sui Vescovi). Una sfida interessante cui varrà porgere attenzione – stay tuned, ne parliamo presto.

Ti è piaciuto questo articolo? Condividilo!

FACEBOOK

© 2008 - 2024 | Bene Comune - Logo | Powered by MEDIAERA

Log in with your credentials

Forgot your details?