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A me sembra che uno dei sentimenti più diffusi nel nostro tempo sia proprio l’impotenza. E’ come un peso, la sensazione di qualcosa di più forte di noi che ci schiaccia. Lo respiri nell’aria, circola nelle redazioni dei giornali come nei consigli parrocchiali, nelle varie riunioni di partito come nelle università: è un afoso senso di sconfitta, di impossibilità a fare per davvero qualcosa di decisivo, di importante, di vero.

Lo stesso sentimento d’altronde penetra nelle nostre vite individuali, smorza sul nascere ogni entusiasmo, risucchia nelle vecchie abitudini, rintana davanti al video, toglie la voglia di sposarsi, di impegnarsi, di fare figli, di progettare.

E’ paradossale: più le sfide storiche diventano impellenti ed estreme, più sarebbe perciò urgente e necessario un incredibile slancio creativo a tutti i livelli, e più l’essere umano sembra avvilirsi e  perdere coraggio e vitalità. Anche qui probabilmente si segnala un prossimo punto di rottura, allorché l’accumulo delle urgenze non corrisposte, dentro e fuori di noi, a livello esistenziale come a livello planetario, potrebbe costringerci a cercare nuove fonti vitali, un nuovo inizio.

Le correnti più avanzate della società globalizzata ci spingono ad un nuovo scatto di volontà: Yes, we can.
Ma è davvero così? E’ davvero sufficiente questa iniezione di volontarismo per rimettere in moto la storia? Oppure anche questi inviti, pur legittimi, alla Obama, portano dentro di sé un sapore di impotenza, di velleitarismo, di astrattezza?
L’essere umano, così com’è fatto, e non come gli ideologi degli ultimi due secoli hanno preteso che fosse, è realmente capace di scegliere in ogni caso il bene comune, e addirittura il bene "globale"? Oppure, come la sapienza di tutti i tempi e la psicoanalisi contemporanea ci insegnano, noi siamo quasi sempre troppo feriti, troppo malati, troppo avvelenati, confusi e distorti, troppo impregnati di maledizioni familiari e di millenni di concezioni errate, anche solo per riconoscere il nostro proprio bene personale e per seguirlo?
 
Non è san Paolo, e quindi non un libertino qualunque o un immoralista o un relativista postmoderno, a dire nella Lettera ai Romani: “Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. (…) Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene, c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio” (7,15-19).

E allora, la donna e l’uomo contemporanei, hanno ancora bisogno di predicatori che li incitino a ulteriori (e sostanzialmente impossibili) sforzi morali, sovraccaricandoli di sensi di colpa e appunto di impotenza? Oppure hanno soltanto un urgente bisogno di qualcuno che li aiuti a curarsi
, e a trovare quella integrità del cuore, da cui possa poi sgorgare un’azione effettivamente libera ed efficace?

Insomma, la vera domanda da porsi oggi è come poter trovare un centro interiore meno alienato da cui ripartire per progettare le nostre esistenze e la stessa storia del pianeta.

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