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È sempre utile stabilire connessioni logiche tra fatti. Soprattutto, quando la fenomenologia in esame risulta regolarmente sottoposta ad una sorta di rimozione collettiva. Parliamo, in quel caso, della diffusa, sovente promossa, intolleranza nei confronti del diverso. Una problematica che non può essere lasciata al governo delle semplicistiche rappresentazioni.

La cornice di senso
Certo, non possiamo disquisire ora delle eterogenee espressioni che il razzismo ha assunto e continua ad assumere nella società contemporanea. Specifico poi che non è mia intenzione lanciare il «guanto della sfida», segnalando quanto poco, o tanto, si sia fatto con i provvedimenti emanati dalla politica nazionale e locale. E nemmeno possiamo far precedere, nella trattazione, il tema sempre rilevante (ma, imponente) dell’oblio, rispetto ai drammi – ai «mostri» – che il «sonno della ragione» ha generato nella storia occidentale.
Mi sforzerò allora di mostrare, attraverso alcuni eventi tratti dalla cronaca italiana, la drammatica diffusione di una violenza latente – potenzialmente esplosiva – che ha come bersaglio principale il migrante. Questa operazione produce due effetti: da un lato, evita la riduzione di questi fatti a casi isolati, patologicamente contingenti; dall’altro, evidenzia la restituzione, all’opinione pubblica, dello spessore reale che assume la violenza interetnica.
In un Paese con una storia recente di accoglienza dello straniero – che vive una profonda crisi – questi temi non possono essere trascurati. Perché, tra l’altro, sappiamo che la rappresentazione dello straniero, nei circuiti dell’informazione «di massa», non ha affatto agevolato la valorizzazione della convivenza civile, complicando la sfida dell’integrazione sociale.
I termini della questione
Conosciamo i risultati delle ricerche sulle rappresentazioni distorte della realtà. Abbiamo spesso segnalato i rischi connaturati ad una reiterazione di tali rappresentazioni. Per esempio, si è dimostrato che il «basso continuo» della narrazione pubblica italiana disegna il migrante come l’autore di fattispecie riconducibili alla microcriminalità o al decoro urbano, controbilanciando quasi mai questa connotazione negativa con la valenza positiva che egli assume nella società; e non possiamo dimenticare i casi di cronaca, più gravi, in cui lo straniero è stato incolpato, per poi essere scagionato; in molte circostanze, poi, l’«extracomunitario» è diventato protagonista in negativo di una normativa restrittiva della libertà di movimento: che si tratti dello sbarco, della permanenza clandestina, o della detenzione a tal fine preposta, è comunque l’«emergenza» da «gestire» ad essere enfatizzata; nei casi in cui non si tratta di cronaca, il distacco dalla realtà è stato il frutto di fragorose dispute populistico-elettorali, dove il materiale retorico si è confuso con l’abuso strumentale di stereotipi. In questi e altri modi, si è realizzata per anni la riproduzione sociale dello stigma.
Tuttavia, ora si vuole riflettere su un altro tipo di casistica. Anche se la questione presenta una certa ambivalenza: perché, da un lato, è indignazione manifesta, ogni volta che il fatto si presenta ai nostri sensi; dall’altro, è oggetto di rimozione collettiva. Parliamo dell’eccezionale violenza che sempre si manifesta nei casi di cronaca in cui il migrante, invece di essere l’autore, diventa la vittima inerme di un crimine a sfondo razzista. È l’effetto della retorica? Di una chiusura identitaria, venduta come fosse un marchio di protezione dalle incertezze della globalizzazione?
Una cosa merita di essere sottolineata: è un sostrato culturale ben radicato nelle relazioni a caratterizzare queste forme di violenza. Non si possono relegare questi eventi a semplice «follia», individuale o collettiva. Non è con uno psicologismo che si comprendono tali fenomenologie. Bisogna piuttosto studiare violenze dotate di senso intenzionato. Dobbiamo riconoscere quanto queste manifestazioni estreme chiamino in causa gli innumerevoli ambiti in cui la comunicazione, la pedagogia, la prevenzione, la legalità perseguita, le responsabilità pubbliche, giocano (ed avrebbero dovuto giocare) un ruolo di rilievo. Non esistono scorciatoie. Queste circostanze producono la qualità delle relazioni vissute e l’uguaglianza delle posizioni di partenza. Resta fermo, quindi, che, in assenza (o in carenza) di strategie e di investimenti culturali, queste manifestazioni estreme di razzismo testimoniano l’esistenza di gradazioni differenti, meno evidenti. Che si tratti del «bullismo», del comportamento di un datore di lavoro, di un discorso pubblico, di una scritta su un muro, di un volantino o di un articolo redatto con i criteri dell’artigiano dell’insicurezza, il sostrato culturale rimane sempre lo stesso.
Molti conoscono le problematicità insite alla convivenza nei luoghi popolari. Dove la differenza culturale si incrocia con la scarsa dotazione di risorse materiali e sociali, la miccia della violenza può esplodere per poco o nulla. E c’è sempre chi ne approfitta, strumentalizzando le tensioni per i propri, squallidi, «interessi di bottega». Sappiamo anche che il problema rischierà di aggravarsi, se, nelle seconde generazioni, si condenseranno situazioni di marginalità e di esclusione giuridica. Quindi, se davvero, nel sonno della ragione, non troviamo lo spazio per discutere del tema dell’oblio, possiamo almeno sforzarci di ricordare quei frammenti che restano cristallizzati nel breve periodo. Ed è già un’attività molto importante.
Fatti noti? O, perfettamente dimenticabili?
Ho scelto quattro eventi dalla storia della cronaca nera italiana. In questi fatti il migrante è stato la vittima di crimini a sfondo esplicitamente razzista. Sono innumerevoli i casi che avremmo potuto menzionare. In poco tempo, sarebbe possibile ricostruire una mappatura del crimine efferato contro lo straniero. E ciò non farebbe altro che evidenziare la propensione collettiva all’oblio e alla progressiva ricostruzione di una immagine distorta dello straniero. I primi due, appartengono al Sud, assumendo sfumature che riflettono a pieno le problematicità insite in quel territorio. Gli altri due evidenziano la sussistenza di una xenofobia esplicita anche in due contesti del Nord – Torino e Firenze; contesti considerati disponibili a ragionare di cultura dell’integrazione; ma, anche, bisogna sottolinearlo, radicalmente sottoposti allo stress che caratterizza questo frangente di crisi.
(i) La «strage di Castevolturno» – Set. 2008 – è passata alle cronache per la crudeltà con la quale, nell’ambito di una esecuzione camorristica (l’obiettivo era il proprietario di un locale), vennero sterminati, senza motivo, sei ragazzi africani (nessuno aveva più di trent’anni): 2 ghanesi, 2 togolesi, 2 liberiani (uno si salvava fingendo il decesso). In un primo momento, i media, ricalcando indiscrezioni non confermate, avevano veicolato un movente legato al traffico di stupefacenti, coinvolgendo le stesse vittime in una forma di corresponsabilità oggettiva. Le indagini degli inquirenti, successivamente, esclusero qualsiasi forma di coinvolgimento dei migranti in attività illecite, evidenziando come fossero vittime di un sistema di sfruttamento della manodopera clandestina. Dunque, l’atroce esecuzione rientrava entro il movente razziale. La disperazione dei migranti scaturiva in una irruente mobilitazione. Oltre a gridare, per la prima volta, «italiani razzisti», chiedevano con forza che i responsabili venissero assicurati alla giustizia.
(ii) Nella vicenda di Rosarno – Gen. 2010 – il rapporto tra «noi» e «loro» ha gravitato intorno alle medesime problematicità: lo sfruttamento sistematico, la vessazione, la sopravvivenza al di sotto della dignità. Dall’evento – il ferimento di due ragazzi africani con un’arma ad aria compressa caricata a pallini da caccia – è emersa la punta di un iceberg; la provocazione estrema ha indicato l’arroganza di un razzismo quotidiano, vicino soltanto alla schiavitù dei neri afroamericani: quelli del Mississippi. Una violenza intenzionata, culturalmente connotata. Anche in quel caso, l’esasperazione dei migranti impiegati nella raccolta degli agrumi produsse rivolte fino alla piana di Gioia Tauro.
(iii) La vicenda di Torino – Dic. 2011 – ha destato sconcerto per la visibilità mediale dell’azione punitiva nei confronti dei Rom. L’accusa di stupro resa da una sedicenne italiana – che ha fatto scattare la rappresaglia – si è dimostrata infondata. E la caduta dell’accusa ha meglio evidenziato l’odio interetnico, inteso come sonno dei valori universali, ma anche intenzionato nel perseguimento del fine. Sono tutti figli della «videocrazia», si potrebbe dire. In realtà, non recepiscono passivamente; auto-selezionano percorsi informativi e di appartenenza che appagano l’incertezza dell’esperienza, sfogando sul diverso il senso di un odio consapevolmente coltivato; dichiarano, a pretesto, una presunta civilizzazione acquisita (ius sanguinis). In continuità col passato. Anche le congreghe dei bianchi d’America predicavano la purezza dell’uomo bianco, incendiando le umili abitazioni dei neri. Non esitavano di fronte al rischio di porre in essere stragi di donne e bambini. Peraltro, in Italia, non è una novità l’incendio doloso di un campo nomadi: quasi sempre, tuttavia, da parte di ignoti. La pubblica rilevanza dei gesti suona l’allarme; anche se non ci sono state vittime.
(iv) Firenze è stata scossa dall’omicidio brutale dei due venditori senegalesi (tre feriti), da parte di un attivista di estrema destra, suicida prima che le forze dell’ordine lo braccassero – Dic. 2011. Certamente, quella fiorentina è un’esperienza urbana abituata a livelli di violenza relativamente bassi rispetto ad altre realtà (distinguiamo microcriminalità e decoro dalla violenza efferata). La stessa convivenza interetnica giova di una comunicazione proficua, di un tessuto associativo trasversale e di una promozione istituzionale che ha pochi eguali in Italia. Eppure, l’odio intenzionato – «caccia al senegalese» – ha registrato una delle più dolenti pagine proprio in questa città. Va detto che la reazione delle comunità migranti è stata di grande civiltà; ciò testimonia, ancora una volta, la presenza di un dialogo tra gli attori (hanno manifestato 20.000 persone). Ma, non tutto può essere idealizzato e generalizzato (non sono mancati gli inneggiamenti on line all’omicida). Dunque, se la connessione logica proposta è utile, possiamo dire che il gesto non è soltanto quello di un ragioniere sbandato, di un «folle».
A quel punto, riconoscendo l’utilità della connessione, lo scopo principale di questa nota sarà raggiunto. Non possiamo dimenticare la quotidiana rappresentazione che il razzismo dà di sé: quel patogeno sostrato culturale che necessita ancora di essere studiato, compreso, per non rischiare di capitolare definitivamente tra le «braccia di Morfeo».

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