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di Emanuele Bilotti*
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rnEsattamente un anno fa, il 22 settembre del 2011, nel discorso al Parlamento della Repubblica Federale della Germania, Benedetto XVI, parlando dei fondamenti del diritto, ha indicato con chiarezza a tutti gli uomini di buona volontà la strada che può far fiorire una nuova primavera nella vita delle nostre istituzioni democratiche.

In quella circostanza il Papa ha affrontato una questione decisiva per la vita degli uomini: la questione del fondamento del diritto e della sovranità dello Stato. Il rapporto di subordinazione che lega ogni cittadino allo Stato può essere costruito come un rapporto giuridico o è solo un rapporto di forza? E la legge, che è espressione della volontà sovrana dello Stato, è puro arbitrio o è misura obiettiva di una giusta convivenza tra gli uomini?

A Berlino Benedetto XVI ha messo innanzitutto in evidenza come, con riferimento a certi gravi interrogativi, nella cultura giuridica contemporanea abbia prevalso ormai l’idea secondo cui l’ordine sociale non potrebbe essere fondato altrimenti che sulla libertà individuale. La volontà generale è divenuta così la sola misura del-le legge. Il suo fondamento deve allora essere rinvenuto nel semplice rispetto delle procedure che consentono la formazione di questa volontà generale. Il diritto, in tal modo, si è privato di qualsiasi fondamento esterno, obiettivamente riconoscibile. Non esiste – si dice – un ordine in sé giusto dell’umana convivenza. L’ordine giu-sto è quello che, di volta in volta, è riconosciuto come tale dalla volontà generale. Il rischio di una simile prospettiva è evidente: rimane sempre spazio per un eserci-zio della sovranità dello Stato avvertito come puramente arbitrario e ingiustamente prevaricatorio da una parte dei cittadini, e dunque, in definitiva, estraneo alla logica autentica della giuridicità. E la storia ha mostrato come questo rischio possa anche tradursi in una grave degenerazione degli ordinamenti democratici – una degenera-zione tanto più insidiosa perché in essa, almeno inizialmente, l’illegalità non si pre-senta come forza bruta, ma sempre all’interno di una forma apparentemente giuri-dica.

A Berlino Benedetto XVI ha ricordato come i Popoli dell’Europa – e il Popolo te-desco in particolare – abbiano già sperimentato una situazione di questo tipo, ma anche come ad essa abbiano saputo reagire, combattendo il dominio dell’ingiustizia in nome della legge della verità. E cioè in nome del riferimento a un ordine esterno al diritto positivo, obiettivamente riconoscibile – un ordine al quale il diritto positi-vo deve conformarsi e che costituisce il fondamento della sua validità. Da questa lotta per la giustizia e per il diritto sono nate quelle che sono state chiamate le “Co-stituzioni del dopo Auschwitz”, le grandi Carte fondamentali che sono tornate ad “aprire” il diritto ai valori etici della persona e, come è stato detto da un giurista italiano, ad allungare le strade della legittimazione delle norme giuridiche: le nor-me non sono più valide solo perché volute da una maggioranza, ma anche perché giustificate in base ai grandi valori istituzionalizzati dalla Costituzione.

Questa stagione si è però esaurita troppo presto. A Berlino Benedetto XVI ha par-lato di un «drammatico cambiamento della situazione». È subentrato in effetti un nuovo clima culturale. È il nostro tempo: il tempo in cui i poteri della tecnica e del mercato hanno preso il sopravvento e dettano legge. E le leggi della tecnica e del mercato sono divenute così pervasive che ormai non sembrano più tollerare neppu-re il limite della dignità della persona. «L’uomo – ha detto Benedetto XVI a Berli-no – è in grado di distruggere il mondo. Può manipolare se stesso. Può, per così di-re, creare esseri umani ed escludere altri esseri umani dall’essere uomini». Il nuovo diritto – il diritto della tecnica e del mercato – arriva così a mettere in discussione lo stesso statuto antropologico della persona.

Che cosa è successo? Come si è potuto produrre, nel breve volgere di poche decine di anni, questo «drammatico cambiamento della situazione»? La stagione feconda in cui hanno visto la luce le grandi “Costituzioni del dopo Auschwitz” era stata ca-ratterizzata da un diffuso sentimento di ottimismo e di fiducia nelle possibilità della ragione dell’uomo di intendere al meglio le necessità sociali e di trovare il modo più giusto per dare ad esse soddisfazione, di riconoscere insomma un ordine in sé giusto delle relazioni tra gli uomini. Poi però quel sentimento ha nuovamente cedu-to il passo a un senso di diffidenza e di incertezza sulle effettive possibilità della ragione pratica. È un processo, questo, che Joseph Ratzinger ha già più volte de-nunciato, prima come intellettuale e ora anche come Vescovo di Roma: è il proces-so per cui la ragione moderna si è ritirata entro i confini ristretti di ciò che è misu-rabile, sperimentabile, calcolabile… Ma una ragione che si riduce a puro calcolo non può essere più capace di pensare la giustizia, perché, come ha detto Jacques Derrida, la giustizia non si calcola! Il diritto è tornato così a essere concepito come una pura tecnica sanzionatoria al servizio degli scopi che, di volta in volta, hanno la forza di imporsi. E tra i responsabili della cosa pubblica ha prevalso di nuovo l’atteggiamento di Pilato, il pragmatico uomo di governo che alla domanda sulla verità non si aspetta alcuna risposta, perché è convinto che la verità non esista o comunque che sia una categoria estranea alla politica – una questione priva di qual-siasi rilievo per lo svolgimento dei compiti propri di un amministratore pubblico.

A quest’idea di un ordinamento giuridico dello Stato costruito come un edificio in cui ormai non c’è più bisogno di finestre da spalancare sul mondo, perché, in defi-nitiva, l’assunto da cui si muove è che non c’è alcun mondo reale là fuori – a quest’idea Benedetto XVI a Berlino ha opposto anzitutto la certezza della Chiesa che esiste invece «un’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva» e che perciò, senza paura di «scivolare nell’irrazionale», in quell’edificio bisogna nuovamente “aprire finestre” per affacciarsi sulla vastità del mondo della natura e dell’uomo e per ricercare in esso, con pazienza, anche le direttive necessarie per un giusto ordi-namento dell’umana convivenza. Ma come può la Chiesa pretendere di offrire que-sta certezza agli uomini di oggi? La Chiesa può contribuire a rinsaldare la fiducia degli uomini nelle possibilità della ragione perché crede che tutto ciò che esiste non è il prodotto di forze oscure e irrazionali, ma è opera amorevole della Ragione creatrice di Dio e che l’uomo non è una creatura come le altre, ma è stato creato da Dio “a sua immagine”, ne custodisce il “respiro”, lo Spirito creatore. La creazione appare allora come una realtà decifrabile: la sua verità è senz’altro accessibile alla ragione degli uomini e può anche servire da misura e da criterio orientativo per re-golare le relazioni tra loro.

La Chiesa non propone dunque un proprio diritto basato su un qualche principio di autorità rivelata. A Berlino il Papa non ha offerto risposte a questo o a quel pro-blema di competenza delle Assemblee legislative degli Stati. Quale debba essere la giusta struttura della società degli uomini, del resto, non è certo un problema che possa competere alla Chiesa. Essa continua però a invitare gli uomini ad aver fidu-cia nelle possibilità della propria ragione: la domanda di giustizia che nasce dal cuore degli uomini non deve rimanere senza risposta; la ragione umana è senz’altro capace di produrre risultati anche in questo campo. Di fronte a un clima culturale sempre più indolente e rinunciatario, che spinge all’irresponsabilità e al disimpe-gno dei singoli – un clima culturale che non può che favorire nuove soluzioni auto-ritarie, l’invito della Chiesa è allora quello di continuare a tener desta la sensibilità per la verità. Non è dunque per legittimare un qualche diritto religioso che a Berli-no Benedetto XVI ha invitato i politici a interrogarsi di nuovo «se la ragione ogget-tiva che si manifesta nella natura non presupponga una Ragione creativa, un Crea-tor Spiritus». La proposta della Chiesa, come disse proprio Joseph Ratzinger molti anni fa, è piuttosto quella di un illuminismo autentico, finalmente capace di conse-gnare il mondo alla ragione dell’uomo.

A Berlino Benedetto XVI non ha però voluto semplicemente rianimare la fiducia degli uomini nelle possibilità della ragione pratica. Egli è infatti ben consapevole che una simile proposta potrebbe anche rimanere solo una bella teoria, senza dive-nire mai davvero capace di tradursi in una concreta prassi politica. Proprio per que-sto – perché una rinnovata fiducia degli uomini nelle possibilità di autentico di-scernimento della ragione pratica possa davvero sostenere un impegno politico ef-fettivo – a Berlino il Papa ha formulato anche un’altra proposta: una proposta ancor più coraggiosa e davvero sorprendente. All’inizio del suo discorso Benedetto XVI ha infatti ricordato ai parlamentari tedeschi l’episodio biblico del giovane Re Sa-lomone, al quale, al momento di assumere il potere, fu riconosciuto da Dio il privi-legio di formulare una richiesta che senz’altro sarebbe stata esaudita. Salomone non chiese potere, ricchezza, successo sui nemici… Chiese che gli fosse concesso un “cuore docile” per distinguere il bene dal male e rendere così giustizia al popolo affidatogli da Dio. Al termine del suo discorso Benedetto XVI è tornato di nuovo su questa preghiera di Salomone. Questa volta ha però avuto l’ardire di indicarla ai politici come un modello da seguire. Insomma, ha invitato anche loro a rivolgere a Dio la stessa preghiera di Salomone: la richiesta di un “cuore docile” per rendere giustizia al popolo.

Perché? Che senso concreto può avere un invito così al fuori degli schemi? Non sono solo belle parole. La Chiesa sa bene, infatti, che avere fiducia nelle possibilità della ragione pratica è una condizione necessaria perché le società umane possano esistere stabilmente secondo un ordinamento non arbitrario. Ma sa anche che ciò non può mai essere sufficiente. E ciò perché, come anche Benedetto XVI non si stanca di ripetere, c’è sempre il rischio che, nella coscienza del singolo, la sensibi-lità per la verità finisca per essere sopraffatta dalla sensibilità per gli interessi parti-colari: «per poter operare rettamente – si legge ad esempio nella Deus caritas est – la ragione deve sempre di nuovo essere purificata, perché il suo accecamento etico, derivante dal prevalere dell’interesse e del potere che l’abbagliano, è un pericolo mai totalmente eliminabile». Insomma, solo una ragione costantemente purificata dalle insidie del potere, del successo, del denaro o anche, più semplicemente, dalla legittima aspirazione a fare quel che è bene per sé e per i propri cari – solo una ra-gione siffatta diviene capace di una percezione davvero chiara delle esigenze della giustizia.

Si comprende, a questo punto, perché a Berlino il Papa abbia invitato anche i poli-tici di oggi a rivolgere a Dio la preghiera di poter sempre fare affidamento su un “cuore docile”. Nessuna norma costituzionale, infatti, potrà mai garantire fino in fondo la libertà del rappresentante del popolo da qualsiasi “vincolo di mandato”. E ciò perché i diversi interessi particolari, che sono i veri “mandanti” di ciascuno, possono essere signori potenti delle coscienze dei singoli. E però, d’altra parte, un impegno politico autentico, una ricerca sincera del bene comune non sarà mai dav-vero praticabile se non a costo del sacrificio di questi interessi particolari – non sa-rà mai possibile, insomma, se non come opera di carità. Questa consapevolezza può indubbiamente scoraggiare molti, per quanto animati dalle migliori intenzioni. Non può però scoraggiare il battezzato. Egli sa infatti che, per lui, la carità non è mai un compito impossibile, sa che può sempre contare su una “forza” in grado di purificare costantemente la ragione e di rendere perciò concretamente possibile an-che la carità politica. Benedetto XVI lo ha detto con molta chiarezza nella Deus ca-ritas est: il Dio di Gesù Cristo, che è presente e vivo nella comunità dei fedeli, «ci ha amati e continua ad amarci per primo; per questo anche noi possiamo rispondere con l’amore». Il comandamento dell’amore non è allora un’assurdità né un’utopia: in Gesù Cristo è divenuto finalmente possibile. È dunque al Dio di Gesù Cristo che il battezzato può rivolgere la preghiera di quel “cuore docile” necessario a un im-pegno politico autentico, con la certezza che, proprio come quella di Salomone, an-che la sua richiesta sarà esaudita. Il nuovo protagonismo dei cattolici in politica, di cui oggi tanto si parla e di cui si comprende a questo punto fino in fondo l’urgenza, non può allora che prendere le mosse proprio dalla preghiera di Salomone. È solo a partire da qui che, a ben vedere, potrà fiorire una nuova primavera nella vita delle nostre istituzioni democratiche.

*Emanuele Bilotti è professore associato di diritto privato nell’Università Europea di Roma

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