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Avere gli stessi sentimenti di Gesù significa porre la sua persona e la sua storia a paradigma della nostra visione dell’altro e del mondo. E il paradigma è quello dell’Incarnazione: il mistero che celebriamo ogni anno a Natale

Papa Francesco a Firenze, partendo dalla considerazione del “volto di un Dio svuotato”, che ha assunto la condizione di servo per farsi uno di noi, si è rivolto alla Chiesa Italiana esortandola ad avere “gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” (Fil 2,5-8) e ne ha indicati tre: umiltà, disinteresse e beatitudine.

Gli esegeti ci spiegano che la parola greca che viene tradotta con “sentimenti”, significa non solo “sentire” o avere una certa “sensibilità”, ma piuttosto pensare, ragionare, confrontare e quindi indica il carattere stesso di una persona, quel complesso di orientamenti – al bene o al male – che sono guida al comportamento morale.

Forse in questi tempi di affannosa ricerca di sicurezza e di criteri netti con cui separare i buoni dai cattivi questa esortazione ad acquisire “i sentimenti” di Gesù ci suona un po’ vaga e tuttavia , oltre ad un appello alla ragione e ai principi, non è meno importante il riferimento al “sentire” ciò che si è compreso, per ritrovare il calore di una intima convinzione che, al di là di ogni ragionamento, ci motiva ad agire e a sperare.

Avere gli stessi sentimenti di Gesù significa porre la sua persona e la sua storia a paradigma della nostra visione dell’altro e del mondo. Non c’è una norma, ma un continuo processo di adeguamento alla realtà per trasformarla e vivificarla dall’interno. E il paradigma è quello dell’Incarnazione, il mistero che celebriamo ogni anno a Natale, e che fondamentalmente consiste in questo: Dio in Cristo “svuotò se stesso, assunse la condizione di servo, divenne simile agli uomini”.

Su questo paradigma il cristiano è chiamato ad agire, e umiltà disinteresse e beatitudine bene lo declinano.

In una concezione cristiana l’umiltà è fondamentale, si tratta della consapevolezza della propria condizione di creature, fragili, limitate, cattive… eppure anzi, perciò, amate da Dio come figli e proiettate ad un destino di bene e felicità.

Spesso consideriamo questa virtù principalmente attinente alla sfera individuale, ma proprio perché un certo modo di considerare se stessi implica una corrispondente presa di posizione nei confronti degli altri, l’umiltà è anche una virtù sociale.

Non soltanto serve all’edificazione della persona, ma edifica la comunità, anzi le permette di sopravvivere. Al di fuori dell’umiltà scompare la possibilità di tenere in piedi una comunità autentica, e non solo una comunità cristiana, ma la comunità civile.

Sapere con verità quello che siamo – e accettarlo – ci toglie l’ansia di “contare” davanti agli altri, di avere un peso, anche noi possiamo presentarci “vuoti”, cioè “capaci”, dotati di spazio per accogliere l’altro.

L’umiltà mi consente di “guardare l’altra persona non più soltanto con i miei occhi e con i miei sentimenti, ma secondo la prospettiva di Gesù Cristo. (…) Al di là dell’apparenza esteriore dell’altro scorgo la sua interiore attesa di un gesto di amore, di attenzione, che io non faccio arrivare a lui soltanto attraverso le organizzazioni a ciò deputate, accettandolo magari come necessità politica. (Benedetto XVI, Deus Caritas Est n°18)

L’altro sentimento è il “disinteresse”, non l’indifferenza del “si arrangi chi può”, ma l’esatto opposto dell’atteggiamento rivendicativo del “quel che mi spetta” a tutti i costi; ciò che ritengo mi sia dovuto – e magari lo è davvero – diventa spesso un feticcio a cui mi aggrappo gelosamente senza più considerare “l’interesse” o il bene degli altri.

Anche il “disinteresse” è un balsamo per i rapporti comunitari, perché ci fa uscire dalla logica dell’attendersi tutto dagli altri e anche dalla convinzione opposta e speculare che tutto gravi sulle nostre spalle; il bene comune, invece, è un bene che è comune, cioè una realtà a cui tutti possono attingere e partecipare.

Al contrario, noi spesso viviamo nella paura che riconoscere dignità all’altro significhi perdere la nostra; difendere i diritti dell’altro comporti perdere i nostri; condividere le nostre risorse significhi esserne defraudati…

La beatitudineè una scommessa laboriosa”, afferma ancora Papa Francesco, e in questi tempi così carichi di paura e di incertezza per il futuro, offuscati da presagi di guerra, da un senso di impotenza e di incombente tragedia, mi pare un’espressione particolarmente pregnante e al tempo stessa illuminata dalla speranza.

Sì, la felicità è una scommessa: in essa c’è qualcosa di imponderabile e inafferrabile che pertiene direttamente alla dimensione della Grazia, ma essa è al contempo anche il frutto del nostro impegno, è anche opera nostra.

Vi è più gioia nel dare che nel ricevere”, afferma l’apostolo Paolo ricordando alla comunità di Efeso queste parole di Gesù (At 20,34-35). Sentiamole rivolte direttamente anche a noi in questo tempo di Avvento, e cerchiamo di riscoprirne il gusto: la gioia è il sentimento che più ci rende simili a Lui.

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