Con l’approvazione del Jobs Act il Governo si accinge alla redazione dei decreti attuativi. Questione centrale è dare unitarietà alle politiche per il lavoro che hanno vissuto in questi ultimi 10 anni una schizofrenia devastante. Bisogna però partire da un presupposto: solo una polivalenza di competenze e di attori può dare veramente una svolta al mercato del lavoro

Con l’approvazione del Jobs Act il Governo si accinge alla redazione dei decreti attuativi: si passa dalle parole ai fatti. Questione centrale è dare unitarietà alle politiche per il lavoro che hanno vissuto in questi ultimi 10 anni una schizofrenia devastante. In mano allo Stato le risorse per il sostegno al reddito dei lavoratori disoccupati (Aspi) e per gli interventi straordinari (Cassa integrazione in deroga), competenza delle Regioni nei servizi per l’impiego e nelle politiche attive.

Il risultato è stato disastroso. I tempi di ricollocazione sono stati mediamente doppi per i soggetti tutelati rispetto a quelli che non avevano alcun sostegno; con la Cassa in deroga sono stati autorizzati a livello regionale interventi che si sono prolungati anche oltre i sei anni, spesso ricorrendo a questo istituto dopo aver esaurito le misure ordinarie; la formazione è stata considerata la cenerentola delle politiche attive e in molti casi del tutto ignorata lasciando ampie platee di lavoratori in uscita da aziende in crisi senza alcuna opportunità di riqualificazione. Insomma il modello lo stato paga e le regioni decidono come spendere è stato del tutto fallimentare.

Risulta mostruoso lo spreco che si è annidato dentro a queste disfunzioni: basti solo pensare che l’insieme delle risorse spese per gli ammortizzatori sociali e per le indennità di disoccupazione (quindi quelle accantonate dalle imprese presso l’Inps più quelle provenienti direttamente dalle tasche dei cittadini e versate come imposte) è prossimo ai 100 miliardi da inizio crisi ad oggi. Senza metter mano con fermezza a queste disfunzioni il Jobs Act può rischiare di rimanere il libro dei sogni.

Verso quale nuova architettura di sistema è bene indirizzare il Paese nelle politiche del lavoro? Cerchiamo di dare una risposta a questo fondamentale quesito.

Quando l’intermediazione del sistema pubblico dopo oltre quindici anni di riforme non supera il tre per cento degli avviati al lavoro, vuol dire che bisogna partire da lì: cioè invertire questo pesante insuccesso. Superando quella centratura, assolutamente velleitaria, che pretenderebbe di assegnare la totalità dei compiti di servizio ai CPI. Bisogna invece partire da ben altro presupposto: solo una polivalenza di competenze e di attori può dare veramente una svolta al mercato del lavoro italiano.

Non si tratta solo di mettere in sinergia attori pubblici e privati, sforzo pure importante ma non risolutivo. Si tratta di far fare a ciascuno il proprio mestiere diversificando le specializzazioni. E’ anche la lezione che ci sta provenendo dall’esperienza della Garanzia Giovani nelle varie regioni italiane. Non aver saputo mettere la centralità sulla costruzione delle reti di servizi, prima ancora che sui risultati attesi, sta mettendo sempre più chiaramente in evidenza che la mancanza di coordinamento sta ponendo seri problemi di insoddisfazione nell’utenza e di inefficienza dei risultati.

Da qui nasce l’esigenza di costruire anche in Italia un sistema duale, capace cioè di unire formazione, impresa e servizi. La dimensione più preoccupante del mercato del lavoro italiano è sicuramente data dall’elevatissima disoccupazione giovanile (43,9%) e dalla vastissima platea dei NEET (2,4 milioni di giovani che non sono né a scuola né al lavoro).

Chi meglio del sistema scolastico e formativo può assolvere a compiti di orientamento e di certificazione delle competenze, di gestione dell’alternanza, dei di tirocini formativi e di inserimento lavorativo, e di tutta la complessa attuazione delle fasi formative in apprendistato? Il sistema duale deve quindi nascere dalla specializzazione di una parte della filiera dell’IeFP diretta sia alla costruzione di una offerta formativa integrata tra istituzione scolastica e impresa, sia alla gestione di una qualificata linea di servizi che serva ad essere un efficace acceleratore di esperienze di lavoro e di ingresso in impresa.  Le stesse statistiche europee ci dicono che là dove si sono costruiti efficaci sistemi duali il contrasto alla disoccupazione giovanile è stato molto più efficace e ci dicono anche che in questi paesi non esiste quella lunga transizione verso il lavoro che caratterizza i giovani italiani alla conclusione del ciclo di studi.


Il sistema duale poi dovrà caratterizzarsi per poter disporre di una offerta formativa flessibile e fortemente professionalizzante
, costituita da un catalogo, tendente al conseguimento di competenze non strettamente ricomprese nei titoli dell’ordinamento, che possa migliorare le condizioni di ingresso al lavoro sia dei NEET e di quella fascia di giovani in possesso di titoli deboli e non apprezzati dal mercato del lavoro, sia della vasta platea di lavoratori che la crisi ha espulso dal mercato sostenuta dagli ammortizzatori sociali e dalla nuova Aspi, e mancante di adeguate competenze professionali.

Il sistema duale oltre che dalla nuova filiera costituita dalle Scuole delle Professioni e del Lavoro, che ne possono rappresentare un primo fondamentale pilastro, dovrà essere sostenuto da un secondo pilastro: cioè l’apprendistato. Metter mano all’apprendistato per farne un vero contratto di lavoro nella pienezza della sua stessa funzione formativa è sicuramente una sfida ardua.

Resta tuttavia una sfida ineludibile, poiché è oggi l’unico contratto a valenza formativa di cui dispone la contrattualistica italiana. Va pertanto abbattuto ogni eccesso burocratico in questo contratto, vanno limitati i costi dell’impresa a cui non si può chiedere di pagare le ore di formazione, va messo un ordinamento chiaro ed unico a livello nazionale sulla programmazione e sui modelli di gestione della formazione in impresa, va previsto l’ingresso in apprendistato durante il periodo di studi sia per il conseguimento della qualifica e del diploma sia per i percorsi di alta formazione, va riconfigurata la normativa alla luce dell’introduzione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, evitando sperequazioni tra i due ordinamenti.
C’è solo da augurarsi che la politica possa avere le forti convinzioni e l’autorevolezza per portare a compimento questo pezzo importantissimo di riforma.
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