Lo scorso mercoledì 11 gennaio la Corte costituzionale ha reso noto che solo due, dei tre referendum promossi dalla CGIL. Per entrambi si porrà il problema del raggiungimento del “quorum” ai fini della validità della consultazione popolare…

Lo scorso mercoledì 11 gennaio la Corte costituzionale, dopo tre ore di camera di consiglio, ha reso noto che solo due, dei tre referendum promossi dalla CGIL, erano stati dichiarati ammissibili, di modo che il corpo elettorale verrà chiamato a votare in tema di lavoro a voucher (o “accessorio”) e di appalti, ma non in tema di licenziamento.

Non è certo, anzi, che si andrà alle urne, perché una eventuale (sopraggiunta) modifica delle disposizioni di legge potrebbe far venir meno l’esigenza del voto popolare. Del resto è anche possibile uno slittamento del voto in caso di elezioni anticipate, poiché la costituzione vieta che si possa tenere un referendum a breve distanza di tempo dalle votazioni generali.

I referendum ammessi sono due ed in relazione ad entrambi si porrà – peraltro – anche il problema del raggiungimento del “quorum” ai fini della validità della consultazione popolare, poiché ove non si rechi alle urne la maggioranza degli aventi diritto l’esito del voto non avrà alcun valore. Come sempre più spesso accade, però, non è facile comprendere quale sia il quesito sul quale la popolazione verrà chiamata ad esprimersi.

Il primo referendum ha ad oggetto l’abrogazione integrale della disciplina in tema di lavoro “accessorio”, recentemente riformata dal Jobs Act: si deve subito dire che il voto popolare rischia (ancora una volta?) di essere poco utile, perché una disciplina di legge relativa ai “lavoretti” sembra comunque imposta dalle indicazioni provenienti dalle Istituzioni europee, che richiedono una semplificazione degli adempimenti burocratici al fine di reprimere il lavoro nero.

Nello stesso senso non si può non tenere conto del fatto che il sistema dei voucher, mediante la indicazione di un minimo salariale standard per tutte le attività che trovano compenso attraverso la sua corresponsione (pari ad 10 euro, per un netto di euro 7,50 ad ora di lavoro), finisce per costituire un punto di riferimento imprescindibile per la possibile introduzione di una retribuzione oraria minima, riprendendo anche in questo caso precise indicazioni provenienti dalla Commissione europea.

Per certi versi, anzi, si può aggiungere che non si comprende davvero per quale motivo il comitato promotore CGIL non chieda, invece dell’abrogazione, esattamente il suo contrario, cioè la valorizzazione del meccanismo dei voucher accompagnato da una idonea azione di contrasto alle frodi. Ed invero, il sistema della tracciabilità, introdotto nel settembre 2016, mediante l’invio di un SMS un’ora prima dell’inizio del lavoro, sembra garantire, a stare almeno agli ultimi dati, un buon contrasto ai tentativi di frode.

Quanto, invece, al secondo referendum in tema di responsabilità dell’impresa committente in caso di appalto, la norma oggetto di consultazione popolare appare assai tecnica, poiché si chiede di abrogare una parte di una disposizione a suo tempo introdotta dalla “legge Biagi” del 2003, e più volte rimaneggiata in seguito. Anche in questo caso il voto referendario rischia di apparire inutile, perché già oggi la disposizione contestata può essere facilmente disapplicata a condizione che le organizzazioni sindacali si rifiutino di stipulare accordi di questo tipo: non si vede quindi perché bisogna chiamare il corpo elettorale a pronunziarsi se basta così poco per evitare un effetto che la CGIL giudica negativamente.

Peraltro si deve ricordare che la disciplina prevista dalla legge non si applica a tutti gli appalti, perché nel caso di opere prestate a beneficio della pubblica amministrazione, lo Stato non assume alcun obbligo nei confronti dei dipendenti della società appaltante.

Insomma, il popolo sembra chiamato ad esprimersi su opzioni molto tecniche, in relazione alle quali pare difficile di poter registrare la manifestazione di una volontà precisa dell’elettorato, con il rischio evidente di rendere la consultazione di fatto irrilevante, se non inutile, perché destinata a vedere il risultato abrogativo comunque sopravanzato da una legge posteriore.

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