Il contrasto alla violenza di genere non è soltanto una questione di civiltà e di rispetto dei diritti umani, ma una vera e propria questione sociale, dal momento che riguarda trasversalmente tutti. La violenza di genere è un fenomeno assai difficile da contrastare, perché si annida negli interstizi della società, spesso sfuggenti ed insospettabili. È importante guardare al futuro accompagnando le nuove generazioni alla costruzione di un vocabolario emotivo complesso, fornire a tutte e a tutti gli strumenti per tollerare le emozioni negative, le vicende di vita più dolorose; chiedere aiuto non è segno di debolezza, sia per gli uomini che per le donne. Serve costruire relazioni dove si realizzi il riconoscimento di sé stessi e dell’altro ma anche il riconoscimento di sé stessi nell’altro.

Nella rappresentazione collettiva quasi sempre la violenza è rimandata alla vita degli altri, non è qualcosa che ci tocca da vicino; eppure oggi siamo esposti in mille modi diversi al fenomeno della violenza, che come un rumore di sottofondo diviene parte integrante della nostra società.

Le differenti cornici teoriche che cercano di spiegare il fenomeno, a seconda del punto di osservazione scelto, si concentrano sui rapporti di potere, su dinamiche ancestrali insite nell’essere umano, su fattori culturali, sociali, neurobiologici, sulla disregolazione emotiva.

Sicuramente, l’essere umano per sua natura, in ogni momento, ha bisogno di dare un senso a ciò che osserva ed esperisce, soprattutto di fronte all’impensabile, all’indicibile, ma quasi mai c’è un meccanismo di causa-effetto unilineare di fronte a ciò che è difficile raccontare, come di fronte alla violenza, alle violenze, e così il senso ed il non senso si alternano velocemente.

A prescindere dalle variabili individuali e sociali, la sottrazione di dignità è un elemento che può portare ad atti violenti, è come se il destinatario della violenza sia considerato da colui che commette violenza come non degno di essere riconosciuto come uomo, come simile, come parte di un destino comune.

Da qualche anno, con le ACLI di Avellino, lavoriamo a diversi livelli sul tema delle violenze: nelle scuole primarie con interventi di sensibilizzazione e formazione all’incontro con “l’altro”, all’interno dei contesti penitenziari con interventi di risocializzazione e dal 2019 con l’attivazione, in rete con altri Servizi sul Territorio, dello sportello per “autori di violenza”.

Tali azioni sono state ognuna propedeutica all’altra e parte di uno stesso processo di coscientizzazione per noi operatori, della necessità di aprirci alle comunità, per costruire insieme alternative alle asimmetrie di potere, fondate sui ruoli, sui generi, sugli stereotipi.

Oggi, forse, a toccare maggiormente le nostre coscienze è il fatto che spesso questa violenza avviene all’interno delle mura domestiche, tra simili, una violenza che colpisce non solo il diverso, lo straniero, non solo chi è lontano, ma anche chi ci è vicino e quando non si parla di psicopatologia, in quel caso riflettere su ciò che è accaduto diviene ancor più difficile.

Il contrasto alla violenza di genere non è soltanto una questione di civiltà e di rispetto dei diritti umani, ma una vera e propria questione sociale, dal momento che riguarda trasversalmente tutte e tutti. La violenza di genere è un fenomeno assai difficile da contrastare, perché si annida negli interstizi della società, spesso sfuggenti ed insospettabili, manifestandosi per lo più silenziosamente nella vita quotidiana e riuscendo a rappresentarsi come evento accidentale nelle percezione delle stesse vittime.

La comunicazione e l’informazione mediata su questo fenomeno generano spesso ambiguità, pregiudizi, stereotipi, che danno luogo a percezioni distorte e sovrapposizioni di significato. La dimensione individuale è indispensabile per comprendere l’insorgenza, lo sviluppo ed il mantenimento di una situazione di violenza. Infatti, sperimentare le proprie risorse in contesti relazionali positivi, permette di crescere con un buon livello di autostima, un’immagine positiva di sé e la percezione di meritare amore e rispetto; quando questo non è possibile il senso di sé può risultare danneggiato.

Ma le persone hanno un corpo biologico e delle determinanti socioculturali che incidono sulla maniera di sentire, pensare ed agire. Anche il concetto di maschile/femminile è una costruzione socioculturale, fino a qualche tempo fa si insegnava ai bambini a negare le emozioni, a resistere e a reagire alle sofferenze della vita anche con il corpo.

Nel tempo si sono costruite e sono passate all’opinione pubblica rappresentazioni sociali errate relative al conflitto e alla violenza agita tra due persone; si è ritenuto ad esempio che gli uomini violenti fossero individui di ceto sociale basso, magari con dipendenza da sostanze, mentre attualmente si sa che il fenomeno è più ampio e tocca tutti i ceti sociali e tutte le culture. In genere tollerare una relazione in cui esiste uno squilibrio di potere rende addirittura difficile il riconoscimento della violenza.

Ogni volta di fronte a femminicidi si cerca un responsabile, si invoca di volta in volta la repressione, l’educazione sentimentale nelle scuole, ma spesso quando parliamo di violenza come libera scelta e non come un raptus dovuto a psicopatologia, è qualcosa di molto ancestrale che non riguarda solo quello specifico uomo e quella specifica donna, ma l’intera società.

Gli uomini che commettono violenza contro le donne, purtroppo entrano nella nostra ordinarietà e non sono questo o quel mostro; le donne purtroppo si uccidono in tanti modi, quando vengono pagate meno rispetto agli uomini per lo stesso lavoro, quando devono eccellere in tutto per acquisire ciò che tanti uomini raggiungerebbero nella mediocrità, quando in un sistema familiare, i carichi di cura sono solo una questione femminile, quando il corpo diviene un ostacolo alla propria autorealizzazione. E ancora le donne subiscono violenza quando gli interventi a tutela delle donne che denunziano sono lenti e poco professionali, quando la comunicazione ed i media urlano solo di fronte ad atti estremi, quando di fronte ad uno stupro leggiamo la frase: “Forse se non si fosse vestita in quel modo”.

Dal punto di vista legislativo l’entrata in vigore del Codice Rosso e ancor di più l’attivazione del Protocollo Zeus in alcune questure, fanno sì che emerga maggiormente il fenomeno della violenza, ma spesso gli interventi sono sporadici e frammentati.

È importante accompagnare le nuove generazioni alla costruzione di un vocabolario emotivo complesso, fornire a tutte e a tutti gli strumenti per tollerare le emozioni negative e le vicende di vita più dolorose; serve poterci dire che il lutto esiste, che fallire non significa essere fallito, che chiedere aiuto non è segno di debolezza, sia per gli uomini che per le donne; ed ancora serve che i mezzi di comunicazione inizino ad non usare la parola amore quando si parla di donne vittime di violenza maschile. Anche il linguaggio è fondamentale, in tutte le fasi della violenza. Parlare o scrivere è un’azione vera e propria e l’uso di un termine piuttosto che un altro, comporta una modificazione del pensiero dell’emittente.

Un primo fondamentale elemento di prevenzione e protezione, è dunque rappresentato da un cambiamento a livello sociale e culturale che porti a far emergere le caratteristiche di ogni persona a prescindere dal sesso biologico.

Il punto di svolta nell’approccio al problema della violenza contro le donne è la sperimentazione di una pratica che ribalti l’ottica dell’intervento, da una posizione che considera la donna come “vittima”, soggetto passivo e debole, ad una considerazione della donna come soggetto credibile e forte e ad una rivalutazione delle responsabilità dell’autore di violenza.

È impossibile oggi dare una risposta esaustiva ed unica a quello che è il tema delle violenze, ma si può pensare all’importanza delle competenze educative e relazionali che vengono imitate ed apprese in famiglia e nei vari contesti aggregativi ed istituzionali; quando saltano alla cronaca relazioni amorose “tossiche”, che in realtà di amore hanno ben poco.

Oggi anche nei contesti educativi, si tende a riempire gli spazi, a far sì che tutto funzioni per il meglio, corso di ginnastica, di teatro, di musica e poi c’è l’inglese; il problema è che ad essere centrale in tali attività è la performance, il risultato, a scapito di uno spazio di co-costruzione emotiva e relazionale.

Spesso il vuoto di riflessione, apre spazio al dominio dell’agito e dell’impulso, molte azioni violente sono frutto dell’incapacità di pensare, di pensarsi e di immaginare le conseguenze delle proprie azioni ed allora si ricorre al controllo, all’isolamento emotivo, alle offese, alla violenza fisica. Allo stesso modo la necessità di raggiungere una qualche forma di identità strutturata rende le persone fragili e prive di senso critico.

La mancanza di riferimenti intorno ai quali costituire la propria identità spinge a rifugiarsi in comportamenti di chiusura verso il mondo, in chiusure settarie che determinano il sorgere di sub-culture violente. Tutto ciò alimenta un individualismo che impedisce l’accesso all’altro e alla dimensione relazionale se non in termini non di differenza, ma di diversità, da evitare o osteggiare.

Tutto ciò che è di ostacolo al bisogno, impedisce alla dimensione del desiderio di farsi avanti e può dar luogo al dominio, dimensione nella quale non c’è né confronto, né conflitto, né potere negoziale e dove per forza di cose si arriva al potere di un individuo su di un altro.

Fondamento dell’azione dell’essere umano è la capacità riflessiva, cioè la capacità di riflettere sui propri e gli altrui stati mentali; la capacità riflessiva è anche il dialogo intrapsichico che ogni essere umano ha con se stesso, ma quando questo pensiero su di sé e sull’altro viene a mancare, emerge l’impossibilità di dare senso al mondo, l’emozione non è mediata dal pensiero, dalla parola e vi può essere il ricorso all’atto violento.

Nella relazione allora, c’è il riconoscimento di sé stessi e dell’altro, ma anche il riconoscimento di sé stessi nell’altro.

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