Nella storia del cinema la guerra e la violenza sono state trattate con sistematicità. Si pensi alla pellicola francese del 1937, “La grande illusione” di Jean Renoir e “La Regola del gioco del 1939”, sempre di Renoir. Nel 1940, Charlie Chaplin scrive, dirige e interpreta “Il Grande dittatore”. E quel dittatore umiliato, è il più grande risultato di un film che ebbe un successo straordinario. Il potere del cinema sembra enorme….

Nella storia del cinema la guerra e la violenza sono state trattate con sistematicità. Del 1937, è una pellicola francese, La grande illusione di Jean Renoir, ambientato durante la Prima guerra mondiale, in un campo di prigionia tedesco. La Francia è rappresentata dal tenente Jean Gabin e da altri connazionali, il capo del campo è il tedesco Erich Von Stroheim. ra parlato in francese, tedesco, inglese e russo.

Francois Truffaut, prima di diventare regista era un critico, scrisse: “La storia era costruita sull’idea che il mondo si divide orizzontalmente e non verticalmente, cioè per affinità e non per nazionalità […] vi si pratica una guerra ancora improntata sul fair play, una guerra senza bombe atomiche e senza torture”.

Molte persone si sono chieste il significato del titolo, La Grande Illusione, che Renoir aveva dato al film solo dopo averlo finito; lo spiegano le ultime frasi del dialogo tra Jean Gabin e Marcel Dalio, quando stanno separandosi sulla neve dopo aver raggiunto la frontiera svizzera. Gabin: “E’ proprio l’ora di finirla con questa maledetta guerra…sperando che sia l’ultima”. Dalio: “Ah, che illusioni ti fai”.

La Grande Illusione è dunque l’idea che quella guerra sia l’ultima ma è anche l’illusione della vita, l’illusione che ognuno si fa del ruolo che recita nell’esistenza. Venne presentato al Festival di Venezia nel 1937, la giuria non osò conferirgli il Gran Premio e inventò un premio di consolazione. Qualche mese più tardi Mussolini proibì il film, mentre Goebbels in Germania si accontenterà in un primo tempo di amputare tutte le scene in cui il personaggio di Dalio esprime la generosità ebraica.

Colpisce che si abbia paura del sentimento pacifista espresso da un film. Che dei dittatori lo temano. Questo mi fa pensare, per par condicio, che sia legittimo preoccuparsi di un film o di una serie guerrafondaia o violenta. Ma da parte di chi? Dei siciliani a causa della serie de La Piovra o dei cittadini di Napoli a proposito di Gomorra serie e libro? La diffusione di queste serie televisive ha propagato il fenomeno?

Possiamo supporre che, se Italia e Germania non avessero impedito la proiezione di “La grande Illusione”, la guerra sarebbe stata fermata? Che il 10 settembre del 1939, i soldati tedeschi, ripensando alla finezza del comandante tedesco Von Stroheim, avrebbero ripudiato l’idea di entrare in Polonia?

In La Grande Illusione non si trova né un’annotazione né un dettaglio negativo o peggiorativo verso la Germania. Eppure, si manifesta un odio per la guerra. Come in Jules e Jim di Truffaut (1962), la guerra non separa l’amicizia di un ragazzo tedesco e un francese.

Ancora ne La Regola del gioco del 1939, Renoir, racconta solo di amore e di frustrazioni sentimentali di aristocratici e camerieri riuniti in un castello. È un film di guerra, eppure non viene fatta neppure un’allusione alla guerra.

Ma, a ben vedere, la sequenza di una scena di una battuta di caccia, dove si vedono, in un montaggio alternato, i corpi agonizzanti di tutte le prede, conigli, fagiani, quaglie, sembra parlare non solo di animali. Presentato nel luglio del ’39 fu un insuccesso. Vennero tagliati 15 minuti e fu proibito e ritirato dalle autorità nel settembre del ’39, incolpato di demoralizzare i francesi alla vigilia della dichiarazione di guerra.

Renoir ne soffrì così tanto, allo scoppio della Seconda guerra mondiale, da lasciare l’Europa ed emigrare negli Stati Uniti. Il film venne riscoperto, restaurato nella durata originale di 113 minuti e presentato nel 1959 al Festival di Venezia.

Nel 1965, data della sua nuova presentazione a Parigi, il film conosce un autentico trionfo: da allora è considerato uno dei migliori della storia del cinema. “Il tragico della vita e che tutti hanno le loro ragioni” questa frase giunge come un segnale che diventa anche il titolo del primo romanzo di Paolo Sorrentino dopo l’Oscar a La Grande Bellezza: “Hanno tutti ragione”.

Più che una riflessione amara, pare un avvertimento, o una velata minaccia. Se hanno tutti ragione, chi ha torto? Mi sono seduto dalla parte del torto, perché tutti avevano ragione. Il giudice saggio, ascoltate attentamente le motivazioni del primo litigante, commentò: “Hai ragione” poi, sentito anche il secondo, anche a lui dichiarò: “Hai ragione”. A quel punto si alzò uno del pubblico che disse: “Ma eccellenza, non possono avere ragione entrambi!”. Il giudice ci pensò sopra un attimo e poi dichiarò, serafico: “Hai ragione anche tu!”.

Aneddoto di Gregory Bateson: il problema è accordarsi su regole condivise ed efficaci per farle emergere. Se fosse possibile.

Un anno dopo La regola del gioco, nel 1940, Charlie Chaplin scrive, dirige e interpreta Il Grande dittatore. Stavolta sbeffeggiandoli, vengono raccontati Hitler e Mussolini, chiamati Adenoid Hynkel e Bonito Napoloni, e anche Garbitsch per Goebbels e Herring per Goring. Sembra che alle critiche politiche e morali, delle quali non si lagnava e non lo ferivano, Hitler non avesse mai intenzione di rispondere. Anzi lo certificavano come un leader: lo promuovevano come un grande. Ma la parodia di Chaplin, proprio lo esacerbava. L’immagine di essere paragonato a un dittatore frivolo, che si commuove vaneggiando di possedere un mondo ridotto a palla da abbracciare e che poi gli scoppia fra le mani, è troppo. Chaplin viene inseguito in tutto il mondo perché venga eliminato.

Di nuovo, il potere del cinema è ritenuto enorme. È enorme. E Hitler, che nel bunker ha una sala cinematografica, se lo fa proiettare e proiettare ancora. Quello spettatore ferito, quel dittatore umiliato, è il più grande risultato di un film che ebbe un successo straordinario. Il più grande di Chaplin. Il discorso all’Umanità del finale apre così: “Mi dispiace, ma io non voglio fare l’imperatore. Non voglio né governare né comandare nessuno. Vorrei aiutare tutti: ebrei, ariani, uomini neri e bianchi” e chiude così: “Combattiamo per eliminare l’avidità e l’odio. (Costruiamo) Un mondo ragionevole in cui la scienza ed il progresso diano a tutti gli uomini il benessere. Soldati! Nel nome della democrazia siate tutti uniti”.

L’inizio è prorompente, il finale opaco: eliminare l’avidità e l’odio! Può essere un programma politico? Il dialogo finale de La grande illusione, qui è il monologo di un pacifista che sostituisce in extremis un dittatore. Quando il discorso del sosia di Hynkel termina, fantastico sempre che venga sommerso dai fischi. L’ottimismo di Chaplin è contagioso, ma quegli stessi che plaudono alla pace, erano lì per spellarsi le mani al discorso guerrafondaio. La violenza che si compie, giustificati dalla forza spersonalizzata di un gruppo, da soli non la faremmo mai.

Anche questo emerge da un libro, e poi in un film, che anatomizza due criminali colpevoli di omicidio: A sangue freddo, di Truman Capote, 1965, film omonimo di Richard Brooks, del 1967. Capote ritiene che, da soli, quei due malviventi, non sarebbero stati altrettanto sanguinari. La ferocia si propaga per sequela, per imitazione, forse, come succede con la grazia e l’accoglienza.

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