Una breve nota comparsa sul British Medical Journal, una delle più prestigiose riviste di medicina del mondo, del 26 Febbraio 2008 (S.Mayor (2008) Meta-analysis shows difference between antidepressants and placebo is only significant in severe depression, BMJ 336 (7642): 466) ha innestato, con un pauroso scricchiolio, una reazione a catena che sta minacciando seriamente il nostro sistema di convinzioni sulla salute umana, la scienza medica e più in generale, sulla natura delle relazioni causali che governano il nostro organismo.

Ha inoltre sollevato dei problemi etico-filosofici di un certo peso che avranno sicuramente una grande rilevanza nel prossimo futuro.rn

Per comprendere meglio di che cosa si tratta ho però la necessità di introdurre un minimo di terminologia:

1.      Studio in doppio cieco. La sperimentazione clinica di nuovi farmaci ha da molti anni assunto come condizione irrinunciabile perché una molecola sia considerata un farmaco efficace questo paradigma di analisi. I ricercatori suddividono un insieme di pazienti in due gruppi P e T, al gruppo P viene somministrata una terapia ‘apparente’ (una compressa di zucchero o comunque di una sostanza senza specifica attività farmacologica ) detto Placebo, al gruppo T il trattamento farmacologico di cui si voglia valutare l’efficacia. Né il paziente, né il medico sono a conoscenza se stanno assumendo (somministrando) il Placebo o il farmaco, da qui il nome ‘doppio cieco’ (medico e paziente ignari). Questa procedura si adotta per tenere al minimo le influenze psico-somatiche legate all’attesa di guarigione sull’esito della cura.

2.      Significatività statistica / Significatività Clinica. La significatività statistica di uno studio clinico si raggiunge quando la probabilità stimata dell’eventualità che le differenze osservate tra i due gruppi P e T siano dovute al caso (cioè alla somma di tutti quei fattori imponderabili e per larga parte ignoti che influenzano l’esito di una malattia o comunque di una condizione fisica) è al di sotto di una certa ‘soglia di sicurezza’ tradizionalmente fissata al 5%. In altre parole ci prendiamo la ‘responsabilità’ di escludere che il nostro risultato non derivi dall’azione genuina del farmaco ma da qualcos’altro accettando un rischio di sbagliarci del 5%.

Questo rischio viene calcolato facendo una serie di assunzioni sulla distribuzione degli errori e sul tipo di confondi mento che ci aspettiamo dall’imponderabile, la ‘potenza del test’, cioè la capacità di ‘scovare significatività statistiche’ è chiaramente dipendente dall’ampiezza del campione sperimentale per cui, a parità di differenze osservate tra i gruppi P e T, uno studio coinvolgente 10000 pazienti darà risultati statisticamente significativi, uno studio che ne coinvolge 100 no. Questo è a prima vista ragionevole, ma solo se non ci spingiamo troppo in là, infatti con un numero abbastanza elevato di pazienti OGNI studio darà risultati statisticamente significativi svuotando di senso l’approccio statistico, vedremo come questo sia purtroppo accaduto in questi anni per molti farmaci.

Raggiunta la significatività statistica allora non ci possiamo fermare, dobbiamo pretendere la significatività clinica. Insomma, una volta escluso un rilevante effetto del caso, rimane la domanda principale: la variazione del parametro d’interesse (nel caso degli antidepressivi a cui si riferisce l’articolo del BMJ una scala di benessere psicologico somministrata ai pazienti) indotta dal farmaco è sufficiente perché il paziente ne ricavi un concreto beneficio oppure la variazione è talmente piccola da essere clinicamente irrilevante ?

Per decidere della significatività clinica la statistica non ci è di nessun aiuto, questa è la sensibilità del medico che deve stabilirlo sulla base della sua cultura ed esperienza.

3.      Meta-analisi. Ogni singola sperimentazione clinica ha delle sue particolari condizioni al contorno (numero di pazienti, loro età media, distribuzione fra i sessi, sotto-tipo e gravità della patologia considerata, eventi concomitanti come l’assunzione di altri farmaci, il livello culturale ecc.) che possono avere un effetto importante sull’esito dello studio in questione. Per cercare di ottenere un’idea il più possibile equanime e complessiva sul reale effetto di un farmaco sulla ‘popolazione generale’, quando si raggiunge un numero di studi sufficiente su una certa molecola applicata ad una determinata patologia, si confronta l’evidenza raccolta indipendentemente nei differenti studi e si traggono delle conclusioni generali. Le meta-analisi coinvolgono delle procedure statistiche abbastanza semplici che considerano come livello base di indagine non più il singolo paziente (come negli studi clinici) ma un intero studio, ogni ricerca (magari coinvolgente migliaia di pazienti) è quindi considerata come un evento singolo insieme ad altre ricerche dello stesso tipo. Le meta-analisi si stanno dimostrando uno strumento prezioso per ‘fare ordine’ in molti campi di studio e stanno scrollando dalle fondamenta molte convinzioni che sembravano solidissime.

Ora ne sappiamo abbastanza per andare avanti, allora, Susan Mayor, nell’articolo citato all’inizio, commenta gli esiti di alcune meta-analisi riguardanti antidepressivi molto diffusi , tra cui il Prozac, il farmaco simbolo degli anni novanta, una delle due o tre molecole più vendute di tutti i tempi. L’esito è sconvolgente: non esiste alcuna prova di un effetto clinicamente significativo di nessun antidepressivo se non nel caso di depressioni gravissime (una proporzione minuscola dei casi trattati con antidepressivi). Questo risultato getta un’ombra pesante sulle politiche di controllo sociale dei paesi sviluppati e sull’aggressività priva di scrupoli di alcune multinazionali (i farmaci tra l’altro non sono privi di effetti collaterali). La sperimentazione massiccia (con conseguente significatività statistica e quindi superamento dei requisiti formali per l’approvazione dei farmaci) aveva coperto la sostanziale inutilità clinica dei trattamenti.

Questo shock sembra aver avuto un effetto salutare e molte meta-analisi sono fiorite dall’iniziale nota di Mayor e storture molto gravi come quella dei bambini sofferenti della supposta sindrome ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Disorder) che ha esposto (e continua ad esporre) milioni di bambini europei ed americani a rischi seri di suicidio e schizofrenia senza contare il generale male di vivere legato alla deresponsabilizzazione di genitori ed educatori che delegano il loro ruolo ad una pillola, sembrano essere prese d’attacco in maniera veemente da scienziati non più proni al paradigma dominante. Questo è sicuramente positivo e segna un cambiamento importante, ma nel lavoro della Mayor c’è qualcosa di ancora più insidioso per una certa visione positivista dell’essere umano più o meno tacitamente condivisa dalla scienza biomedica. Riportiamo un passaggio dell’ articolo : ‘Efficacy reaches clinical significance only in trials involving the most extremely depressed patients, and this pattern is due to a decrease in the response to placebo rather than an increase in response to medication.’

Tradotta la frase suona come ‘L’efficacia (dei farmaci antidepressivi) raggiunge la significatività clinica solo negli studi coinvolgenti pazienti estremamente depressi, e questo schema d’azione è dovuto ad una diminuzione dell’effetto placebo piuttosto che ad un aumento della risposta al farmaco’.

In questa frase è racchiusa una possibile bomba ad orologeria per tutta una larga fetta della nostra cosiddetta ‘cultura moderna’. Insomma qui si dice che il fatto che il farmaco ‘funzioni’ (abbia cioè un effetto significativamente differente dal placebo) sui casi più gravi di depressione (e solo su questi) non dipende tanto dal fatto che esso eserciti una sua azione specifica sul fenomeno , ma dal fatto che nei depressi molto gravi ‘il placebo non funziona più’. L’azione di riferimento è quella esercitata dal placebo, cioè da una molecola che programmaticamente non ha un effetto biologico, non è insomma un effetto mediato dalla chimica, è qualcosa di ineffabile, un miscuglio di speranza nell’efficacia, di ‘attenzione’ da parte del medico, di suggestione. E’ la parte immateriale o, se preferiamo, emergente, della mente (ma forse questa parola è limitativa, forse dovremmo dire anima ?) che agisce sulla parte materiale ? Magari sarà che questa divisione materiale/immateriale è completamente da rivedere e la ‘pace armata’ tra organicisti e non nella psichiatria è un falso problema in quanto magari considerare il ‘cervello’ come l’organo della mente può andar bene in una lezione universitaria ma poi nella pratica clinica forse non è poi così produttivo tenere separati i due ambiti. Tanto più se pensiamo che l’effetto placebo non si manifesta solo nel campo psichiatrico ma in ogni ambito della medicina. Il mio grande amico e valente psichiatra Antonio Onofri a questo punto si farebbe una salutare risata e direbbe che i farmaci in sé non sono né buoni né cattivi, sono uno dei tanti strumenti di uno sfaccettato armamentario che il bravo medico mette in campo quando cimentato dalla sofferenza del paziente. Ma non tutti sono saggi come Tonino ed il problema ha degli aspetti insidiosi.

Un argomento ‘da cena di congresso scientifico’ molto in voga tra tutti i ricercatori che abbiano avuto a che vedere, a vario titolo, con la farmacologia, è questo :

Ma perché prendersi tanta pena a studiare le interazioni fra le sostanze chimiche e le cellule, tanto poi quando si passa dalla sperimentazione in vitro a quella in vivo non se ne cava nulla, e poi neanche i dati degli animali sono predittivi dell’effetto sull’uomo e magari poi ci si mettono anche gli effetti collaterali..meglio sarebbe concentrarsi sulla massimizzazione dell’effetto placebo, visto che tanto il placebo funziona sempre più o meno come il farmaco da saggiare, allora cerchiamo di ‘fare un placebo potentissimo’ così da sostituire i farmaci con qualcosa senza effetti dannosi e ancora più efficace’.

L’argomento fa molto fine, come dai tempi della Grecia classica qualsiasi argomento che lasci trasparire un certo ‘intelligente disincanto’ agli interlocutori. Chiaramente il nostro scettico qualche ora prima della cena avrà magari decantato con dotte spiegazioni e ricco apparato multimediale l’importanza terapeutica di una certa molecola in corso di sperimentazione nel suo laboratorio ecc. ecc. Comunque, bando ai moralismi (anche perché il vostro redattore scientifico spesso fa ricorso a questo argomentare scettico e a volte proprio alle cene dei convegni), e cerchiamo di esaminare criticamente questa proposizione, non come se fossimo alla fine di una cena tra colleghi di lavoro, ma come se volessimo far partire un serio e ragionato progetto di ricerca sulla costruzione di un placebo così potente da essere usato nella terapia.

La prima cosa da fare sarebbe farsi un’idea dello stato dell’arte andando a spulciare la letteratura scientifica esistente e si scoprirebbe che digitando ‘placebo response’ nel sito PUbMed gestito dall’ NIH (National Institute of Health) americano, si ottengono circa trentamila titoli di studi scientifici, di cui più di duemila ‘review’ (rassegne) ed altrettante meta-analisi. Si scoprirà che qualche bello spirito ha trovato delle correlazioni fra colore delle pillole e loro efficacia, tono di voce del medico, disponibilità all’ascolto, insomma il solito folklore affascinante ma disorganico che ad alcuni piace tantissimo ma a me fa venire il nervoso in quanto è agli antipodi delle esigenze di chiarezza e semplicità che mi hanno spinto verso il mestiere di scienziato.

A questo punto quindi io lascerei perdere la questione per dedicarmi a cose a me più congeniali, però il tema resta ed ha il peso di un macigno: potremmo trasformare la scienza medica in scienza delle pubbliche relazioni ? Nel futuro della scienza positivista per eccellenza (i meccanismi fisiopatologici descritti nei libri di medicina ci parlano di una specie di utopia da ballo Excelsior di relazioni causa effetto: il medico bravo è quello che conosce queste rappresentazioni e ne sa fare un uso critico non prendendole mai completamente sul serio, il medico scadente è quello che se le sorbetta adorante) si profila lo spettro di una scuola di recitazione alla Actor Studio, di un uso sacrale dell’immagine della tecnologia con luci intermittenti e grafica computerizzata oppure con discorsi del genere teosofico/etnologico su misura per il genere di paziente? Avremo una separazione tra ‘scuole primitiviste’ che predicheranno un look da sciamano centroasiatico e ‘scuole moderniste’ convinte che l’effetto placebo sia ottimizzato da un look ‘futuro-vintage’ alla Barbarella ? Detto così mi sembra tutto un po’ squallido, e lo scricchiolio veramente pauroso, ma forse potrebbe essere una bella scuola di umiltà, che ci riporti alla sana misura di una gloriosa professione con larghe basi di empiria e soprattutto di attenzione per il prossimo. Noi ce lo auguriamo, a questo punto lo scricchiolio non sarebbe pauroso, sarebbe l’inizio di una musica celestiale.….

rn

 
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