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La decisione del primo grado della Corte europea dei diritti umani contro la legge 40 è un tentativo di stravolgere la Costituzione italiana, che pone la persona come il bene fondamentale dell’ordinamento giuridico. Ritenere di potersi appellare al diritto alla “vita privata e familiare” per sopprimere degli embrioni, significa voler introdurre un principio che esiste nei Paesi anglosassoni, ma che è del tutto estraneo al diritto italiano.

Il caso, come è noto, prende le mosse dal ricorso presentano da una coppia italiana, Rosetta Costa e Walter Pavan,
portatrice sana di fibrosi cistica. I due hanno deciso di opporsi al punto della legge 40 in cui si vieta la diagnosi preimpianto, ovvero la pratica collegata alla fecondazione assistita che consiste nell’analizzare l’embrione per capire se è sano o malato prima di impiantarlo nell’utero.
Ora, la legge 40 è stata introdotta nel nostro ordinamento per offrire una soluzione ai problemi di sterilità o di infertilità attraverso alcune tecniche di fecondazione assistita che non siano così invasive da menomare l’embrione. La stessa legge pone quindi come principio fondamentale la salvaguardia della salute dell’embrione. Proprio perché l’embrione, essendo creato in vitro al di fuori dell’utero materno, è fragile e facilmente vulnerabile. C’è poi stato un regolamento attuativo, le cosiddette linee guida della legge 40, che con riferimento ai casi di malattie geneticamente trasmissibili come Aids ed epatite B hanno operato una prima interpretazione. Secondo queste linee guida non si sarebbe sterili o infertili solo per motivi biologici, ma anche quando l’eventuale concepimento porti ad avere delle situazioni di malattia dell’embrione. Le linee guida hanno quindi offerto anche a queste coppie la possibilità di ricorrere alla fecondazione artificiale. Ora il passaggio ulteriore, chiesto con il ricorso, è di estendere le linee guida anche alla fibrosi cistica.
Tuttavia le linee guida hanno consentito ai portatori di virus Hiv di accedere al cosiddetto “lavaggio dei gameti”. Quindi gli stessi gameti, per via artificiale, possono essere avvicinati l’uno all’altro portando alla procreazione. Una volta però che l’embrione si è formato, è seguita alla lettera la legge 40 preservandone l’integrità. La coppia che ha fatto ricorso invece chiede qualcosa di diverso. Siccome la fibrosi cistica si scopre soltanto dopo la fecondazione, e non prima, si vorrebbe verificare attraverso la diagnosi preimpianto quali sono gli embrioni sani e quali invece sono affetti da patologie, come la fibrosi
cistica, operando quindi una selezione per impiantare i primi e scartare i secondi.
Tutto ciò è però vietato dalla legge 40, in quanto tra i suoi obiettivi c’è quello di opporsi alla selezione eugenetica e impedire che possa essere lesa l’integrità dell’embrione. Cosa che invece avviene inevitabilmente con la diagnosi preimpianto, perché sono formati più embrioni, si selezionano quelli sani, si scartano quelli affetti da patologie e si impiantano soltanto gli altri. E quindi gli embrioni affetti da patologie sono distrutti. E’ una situazione diversa rispetto a quella della sindrome da Hiv, nella quale sono puliti i gameti quando ancora non esiste una vita umana, ma soltanto delle cellule sessuali, maschili o femminili. Proprio per questo, ritengo che la Corte di Strasburgo in seconda istanza, che sarà chiamata a pronunciarsi a seguito dell’opposizione del Governo italiano annunciata dal ministro Balduzzi, non potrà esprimersi in modo positivo sul ricorso dei coniugi Pavan.
La coppia italiana si è appellata al suo diritto al rispetto della vita privata e familiare. Il concetto di diritto alla vita privata e
familiare è tipicamente nordamericano e anglosassone. Ed è legato a quelle normative che vedono nell’individuo il punto di riferimento dell’ordinamento giuridico. Al contrario dell’ordinamento italiano, dove la pietra angolare è la tutela della persona umana intesa come bene giuridico in sé. Mentre nei Paesi nordamericani è l’individuo, cioè le sue scelte finalizzate alla propria realizzazione, che deve essere rispettato, e la realizzazione dell’individuo è il punto di riferimento dell’ordinamento. Questo significa che se per realizzare la vita individuale e familiare è necessario eliminare un altro soggetto, questa possibilità non è esclusa dalla giurisprudenza. Proprio come nella diagnosi preimpianto, nella quale inevitabilmente si eliminano altri embrioni, che hanno comunque una loro soggettività giuridica e sono vite umane.
In nome di questo valore superiore della privatezza e del rispetto della vita individuale e familiare, che secondo una certa mentalità non si realizzerebbe se non si avesse un figlio. In Italia invece il principio è esattamente il contrario: è il figlio che deve avere tutti i diritti primari, e che quindi deve inserirsi dove possibile in contesti armonici, basti pensare al caso dell’adozione. E comunque la vita nascente non può certo diventare strumento al fine di assecondare un bisogno o un desiderio, perché in questo caso si ribalterebbe il nostro ordinamento costituzionale, che non prevede che le vite umane siano strumentali ai bisogni di altri soggetti.
Il ricorso alla Corte europea aveva dunque di mira il rovesciamento di un principio democratico della nostra Costituzione, arrivando a dire: “Pur di realizzarsi, la coppia può sopprimere altre vite umane come quelle degli embrioni, che saranno selezionate attraverso la diagnosi preimpianto e scartati qualora risultino malati”.
Ma l’art. 2 della Costituzione afferma che “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”. Questo significa che prima della legge, prima dello Stato, vengono i diritti inviolabili dell’essere umano, che quindi sono diritti intangibili. Laddove invece si ritenesse che alcuni soggetti, poiché sostanzialmente quasi invisibili come gli embrioni, non hanno questa inviolabilità, significa che la legge viene prima della persone. Cioè l’esatto contrario della nostra Costituzione.
Infine, anche da un punto di vista procedimentale, non appare legittimo rivolgersi alla Corte europea, come ha fatto la coppia, senza prima passare dai tribunali italiani. Secondo la normativa europea infatti prima occorre fare ricorso di fronte al giudice naturale e solo nel caso in cui siano negate le ragioni dei ricorrenti, in seconda istanza ci si può rivolgere alla Corte europea dei diritti dell’uomo.

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