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Una donna è morta. Questo è un dato di fatto che ha scosso molte coscienze. E però siamo in Italia e dopo il clamore dell’urgenza, l’attenzione scema e tutto pare affidato al dimenticatoio. Sono bastati soli due giorni dalla morte e già (quasi) tutte le prime pagine non ne citavano nemmeno il nome. Anche per questo motivo crediamo sia necessario continuare la riflessione sul punto e approfittare dell’osceno oblio odierno per scavare a fondo oltre i pregiudizi e oltre le ideologie.

In questi ultimi giorni molti hanno fatto violenza alle loro coscienze nell’ascoltare prese di posizione spesso infondate, atteggiamenti strumentali, affermazioni false. Molti di noi l’hanno fatto serrati, magari a denti stretti, nel silenzio e raccolti in preghiera per Eluana, per suo padre, per tutti noi italiani.rn

Ora, forse, è giunto il punto per iniziare a fare chiarezza tramite una “ricollocazione” di ruoli, identità, realtà: a ciascuno il suo, avrebbero detto Ulpiano e ripetuto Sciascia. Il suum cuique tribuere all’interno di quello che è stato un omicidio “assistito” vuol dire prima di tutto denunciare le ideologie che hanno accompagnato questo tragico evento.

Ideologie forse presenti da sempre nella nostra società italiana e che per molti versi rischiano di coniugarsi proprio con la Costituzione italiana. Lo spettacolo che si è presentato davanti agli italiani ha mostrato una sovrapposizione di realtà per la quale una “carta” ha più valore di una persona.

Questo, purtroppo, è il nucleo nevralgico. Su questo, senza preclusioni e da cattolici, abbiamo di che riflettere nel tempo. Di questo, almeno, dobbiamo essere grati ad Eluana.

Di seguito verranno indicati alcuni rilievi critici alla condotta dei nostri governanti soprattutto riguardo la tutela dello stato di diritto (se ancora esiste nella nostra penisola). Verrà poi indicato come questi inficiano una corretta prassi di Bene comune. Da ultimo, sarà suggerito un habitus da tenere sempre pronto, anzi vigile, per il fine di un sempre maggior riconoscimento in comune del Bene.

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Abbiamo tutti letto la Lettera del 6 febbraio 2009, con la quale il nostro Presidente della Repubblica ha giustificato, anticipatamente, il suo diniego alla firma dell’ormai famoso “decreto-legge”. Scrive Napolitano «Lei [ndr: Berlusconi] certamente comprenderà come io condivida le ansietà sue e del Governo rispetto ad una vicenda dolorosissima (…). Io non posso peraltro, nell’esercizio delle mie funzioni, farmi guidare da altro che un esame obiettivo della rispondenza o meno di un provvedimento legislativo di urgenza alle condizioni specifiche prescritte dalla Costituzione e ai principi da essa sanciti». Nei paragrafi successivi, la Lettera denuncia il latente conflitto tra i poteri giudiziario e legislativo.

Il diniego ha riproposto la vexata quaestio del rapporto fra Governo e Capo dello Stato in materia di decreti-legge. Per cogliere il nocciolo del problema, alla luce della dottrina più accorta, si può riconoscere che nel nostro ordinamento giuridico la determinazione delle opzioni legislative spetta in primis alla maggioranza parlamentare (espressione del corpo elettorale) mentre al governo (espressione della maggioranza) spetta una funzione direttiva. Inoltre, per completare sinteticamente l’intero orizzonte, l’ordinamento prevede alcuni “contropoteri”, sia interni (il Presidente della Repubblica, ma pure le minoranze parlamentari), sia esterni (la Corte costituzionale, la magistratura e, più in generale, la società civile).

Fra gli strumenti per attuare il proprio indirizzo politico, un Governo dispone dei decreti-legge, vigilati da alcune “cautele”, previste nell’art. 77. La Costituzione è tuttavia chiara nel precisare che le scelte in materia di decreti-legge spettano soltanto al Governo: essi, difatti, sono adottati esplicitamente «sotto la sua responsabilità».

In questi casi al Capo dello Stato non spettano gli stessi poteri di cui dispone in sede di promulgazione di una legge. Può rifiutarsi di emanare un decreto-legge solo se ritenga manifestamente assenti i presupposti di necessità e urgenza che la Costituzione richiede. Molti cronisti in questi giorni si sono chiesti allora: in che cosa consiste il potere del Presidente della Repubblica in merito ai decreti-legge?

Correttamente è già stato evidenziato che il Presidente della Repubblica non è «un passacarte». In effetti, il momento dell’emanazione esplica una preziosa risorsa nell’iter di formazione di un provvedimento governativo (sia esso decreto-legge, decreto legislativo delegato o regolamento).

Esso offre al Capo dello Stato la possibilità di formulare al Governo alcuni rilievi di contenuto e di forma. È stato ritenuto, correttamente, che il Presidente della Repubblica può andare oltre e chiedere all’esecutivo pro tempore di verificare un decreto che eventualmente gli potrà essere sottoposto nuovamente.

La storia della nostra Repubblica è costellata anche di questi episodi.

Se quanto detto corrisponde ai dettami della carta costituzionale, appare invece da escludere che egli possa rifiutare arbitrariamente la firma ad un decreto-legge deliberato dal Consiglio dei Ministri (eventualmente dopo che tale organo abbia preso atto dei rilievi presidenziali).

Rimane invece la facoltà di un rifiuto totale in alcune ristrette ipotesi-limite, che consistano o in un «alto tradimento» o in un «attentato alla Costituzione» (per i quali il Presidente ha responsabilità piena come prescrive l’art. 90 Cost.). Questi sono i casi, ad esempio, nei quali con decreto-legge si prevedano mutamenti di forma di governo, violazione dei diritti umani, lesione dell’unità nazionale, etc.

Per tutte le altre ipotesi di (solo) sospetta incostituzionalità del provvedimento l’ordinamento prevede altri e diversi contrappesi (si vedano, tra gli altri, il controllo parlamentare in sede di conversione del decreto in legge e il giudizio di costituzionalità).

In termini generali, quindi, mentre il Capo dello Stato può (sempre) suggerire un ripensamento, (solo in casi estremi, che non sono presenti nel caso che ci occupa) può rifiutare la firma.

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Il 6 febbraio a detta di noti costituzionalisti, infatti, abbiamo assistito ad una violazione grave della Costituzione, causato da un “eccesso di potere”. Non è possibile non concordare, purtroppo, con la denuncia di qualche fine (non solo) giurista, per la quale abbiamo subito un «vulnus di cui qualcuno potrebbe un giorno pentirsi, magari a cariche istituzionali invertite».

In sunto, si è avuta l’impressione, ed ecco il riemergere della ideologia costituzionale, che l’evidente pericolo vissuto da un soggetto debole della nostra comunità, non è stato ritenuto sufficiente dal nostro Presidente per costituire i presupposti della necessità e dell’urgenza richiesti da qualsiasi decreto-legge. Si è ancora una volta palesata una certa deriva formalistica.

Da cattolici, con lo sguardo sempre rivolto verso il bene comune, ora che i fatti sono compiuti abbiamo il dovere/diritto di porci una domanda semplice, ma non per questo facile: salvare la vita di una persona, fosse anche l’unica, non giustifica forse un provvedimento d’urgenza a carico di un’intera comunità politica?

Se poi dovesse succedere una situazione simile a quella che abbiamo già vissuto, il bene che desideriamo per tutte le donne e gli uomini del nostro paese, non ci impone di denunciare la strumentalizzazione che viene utilizzata per la sua esemplarità? Ecco che l’urgenza del caso di Eluana, per il significato simbolico che incorpora, trascende di gran lunga la vicenda di una “semplice” vita umana. Questo non possiamo più nascondercelo!

Ciò sarebbe di per sé sufficiente per richiamare una nostra “vigilanza” circa l’operato del Capo dello Stato. Ma non basta. Il Presidente ha, difatti, giustificato il suo diniego su un ulteriore presupposto controvertibile: quella della Corte d’appello sarebbe una decisione definitiva.

Purtroppo, anche uno studente di “Diritto processuale civile” presso le nostre Università potrebbe replicare al Capo dello Stato che, per definizione, i provvedimenti assunti in sede di giurisdizione volontaria non contenziosa (come è nel caso che ci occupa) non hanno forza di giudicato, e possono essere modificati e/o revocati dal giudice in ogni istante.

Tutt’altro che decisione definitiva e incontrovertibile.

In sintesi, in questa occasione, il nostro Presidente ha fatto un uso quantomeno incongruo dei poteri attribuitigli dalla Carta e una lettura errata del nostro stato di diritto e delle regole che lo identificano; tutto ci si aspetterebbe da un Capo dello Stato, ma non questo! 

Ecco perché la gratitudine che dobbiamo, purtroppo, agli eventi occorsi potrebbe anche fondarsi su un semplice richiamo alla vigilanza. Il diniego di Napolitano deve essere riportato all’interno della sua cornice specifica: quella di un atto politico, purtroppo ideologicamente partigiano, speriamo proprio del soggetto trinariciuto di guareschiana memoria..

Un diniego che rischia di negare il “personalismo” che ispira tutta la Costituzione. Difatti, la “carta” deve essere garantita per quello che realmente è: una dichiarazione che vale solo e soltanto nel momento in cui è in grado di incarnare i valori per i quali tante persone hanno dato la vita. Questi milioni di uomini e di donne si sono sacrificati per dei valori in cui credevano e non per una “carta” che nemmeno avevano mai letto. Per loro il fondamento degli ideali per cui combattere era la “persona”. Oggi, questa stessa “persona” rischia di valere (molto) meno di un semplice (anche se magari strumentale e quinti utile)… “foglio di velina”.

Rimangono altre questioni sul tavolo dove anche lo stato di diritto rischia di essere immolato all’ideologia. In questa sede le rivolgiamo al lettore sotto forma di domanda.

Come è possibile che una persona accolta dalla sanità regionale esplicitamente per un «piano di assistenza individuale» e non per l’applicazione del protocollo di disidratazione, sia potuta morire per un disegno predeterminato (appunto il c.d. “protocollo”), la cui contraddizione con quanto autorizzato (e pure con la stessa convenzione tra Azienda sanitaria e Casa di riposo) era stata già contestata dall’Azienda sanitaria tre giorni prima del decesso?

Qual è la natura giuridica della struttura allestita con una (semplice) “scrittura privata” all’interno della Casa di riposo? Se, infatti, essa operava nell’àmbito delle autorizzazioni date alla «Quiete», non è dato comprendere come abbia potuto evadere l’atto di indirizzo del ministro Sacconi (sul punto è ovvio ricordare che la recente pronuncia del T.A.R. meneghino è limitata al solo territorio della Lombardia). Se invece il dottore aveva realizzato un’unità di degenza affittando spazi presso la Casa di riposo, non si comprende come abbia potuto continuare a operare abusivamente, poiché in totale assenza delle necessarie autorizzazioni sanitarie, senza le quali un medico non può mai attivare un’unità di degenza. A meno che il caso cui abbiamo assistito non comprenda un (non meglio precisato) ambito di extraterritorialità (e quindi di “assenza di diritto”). Forse in grazie di questo elemento le menti elette del progresso hanno potuto ideare e portare a termine il c.d. “protocollo” in uno stato di diritto quale vorrebbe essere l’Italia.

Questo è il terreno entro il quale denunciare l’ideologia di ogni sorta, costituzionale e non, soprattutto partigiana, dal momento in cui l’obiettivo da raggiungere è il Bene comune ovvero il riconoscimento in comune del Bene, che sussiste a prescindere da qualsiasi “carta”. Perché chiunque rispetti realmente una Costituzione non cede il passo a nessun partigianeria a priori della Costituzione stessa, che è una carta e il suo valore deriva dalla realtà di cui si pone a servizio, ossia il bene della persona umana e la giustizia.

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Un acuto filosofo del diritto, Giuseppe Capograssi, sosteneva che le costituzioni hanno tutte dei gravi difetti perché sono nate – nell’Europa continentale – non dalla scelta consuetudinaria britannica graduale, ma dalla pretesa di costruire un artificio politico con un grande progetto. Questo progetto era un edificio studiato da uomini, progetto che seguiva l’ideologia o una pretesa razionalità invece di mettere in moto l’intelligenza per cercare di cogliere la realtà e limitarsi poi a riconoscerla. Ecco perché se lo stato di diritto non è il fine di una comunità politica è sempre uno strumento valido da preservare con resistenza per raggiungere il vero obiettivo: il Bene comune.

Per questi stessi motivi è davvero ingiustificata (a tacer d’altro) la qualificazione “sovietica” attribuita alla nostra “carta”. Per tutti questi stessi motivi e per stimolare pure una (maggiore) vigilanza del bene comune, però, risulta al contempo intelligente e utile la provocazione di un noto costituzionalista per la quale in questi giorni si è palesata, purtroppo, «qualche ombra sovietica [che] aleggia su taluni (…) interpreti o sedicenti garanti» della Costituzione.

Vigilanti dei sedicenti garanti. Ecco allora la veste imperitura di coloro che realmente “rompono il silenzio” perché hanno a cuore la “comunità politica”, soprattutto quando c’è in gioco la vita di un suo membro, che in quanto tale è essenziale e senza il quale, comunque, non è e non potrà più essere la stessa comunità.

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