La decisione del presidente Napolitano di farsi coadiuvare da due gruppi di lavoro per sbloccare la crisi politica che sta colpendo il nostro Paese va letta dentro il contesto politico di tre minoranze parlamentari i cui leader si rifiutano di aprirsi al confronto. Non senza però premettere che, da un punto di vista mediatico, la nomina delle due commissioni è stata travisata da gran parte dell’establishment del giornalismo italiano, il quale ha semplificato che sono stati nominati dieci “saggi” e, una volta etichettati così, ne ha stigmatizzato il profilo inadeguato per risolvere con autorevolezza una crisi assai complicata.

In realtà, come anticipato dal presidente Napolitano, si tratta di personalità diverse per aree politiche e competenze, e non “saggi”. Sono cioè politici ed esperti che, in parte, sono espressione dei gruppi parlamentari che potrebbero dare la fiducia ad un eventuale nuovo governo e, in parte, sono tecnici, anche di area o vicinanza partitica. Un mix, dunque, di rappresentanza politica e competenza in grado di dialogare con i partiti di riferimento e, soprattutto, tra di loro, nel tentativo di formulare una piattaforma di contenuti minimi intorno alla quale fissare pochissimi punti condivisi per un governo che faccia alcune cose essenziali, a cominciare dalla legge elettorale, per poi andare a nuove elezioni. Non sono dunque saggi che dall’alto della loro sapienza daranno magicamente vita ad un nuovo esecutivo, ma dieci persone che, legate a doppio filo ai gruppi dirigenti del Paese, possono accendere quel dialogo oggi totalmente spento tra le uniche forze in grado di dar vita ad un nuovo esecutivo, cioè Pd e Pdl. Né ci si può rammaricare che in questi gruppi di lavoro non ci siano esponenti grillini, avendo il M5S escluso qualsiasi appoggio ad un governo che non sia esclusivamente sua espressione. Anche la critica che il presidente Napolitano avrebbe disatteso il percorso costituzionale che vede nelle consultazioni e nell’incarico ad un potenziale premier l’unica forma di gestione della crisi è malposta. Da un lato, perché le consultazioni, che sono una prassi e non dettato costituzionale, non precludono al Capo dello Stato di confrontarsi informalmente con altre personalità ed esponenti politici, dall’altro, perché ci troviamo davanti ad una vicenda che mai si era proposta nella storia repubblicana: che ad elezioni appena celebrate non ci sia una, pur risicatissima, maggioranza parlamentare. Con l’elemento di ulteriore complicazione istituzionale che, pur non essendoci una maggioranza politica, una legge elettorale con un premio abnorme alla Camera ed un regolamento con un ballottaggio pensato per un assetto bipolare al Senato, hanno consentito di eleggere due presidenti delle Camere espressione di una sola delle coalizioni. E, a breve, anche per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica potrebbe prodursi lo stesso esito, con la conseguenza sbilanciata e di dubbia costituzionalità di avere le tre cariche di garanzia costituzionale tutte di una sola parte politica, la quale, però, in quanto minoritaria, è incapace di esprimere il governo. Del resto anche il tentativo di indurre alle dimissioni Napolitano, come soluzione allo stallo, non era del tutto disinteressato. Si diceva: il Presidente, essendo nel semestre bianco di fine mandato, non può sciogliere le Camere e andare a nuove elezioni; le sue dimissioni e un nuovo presidente invece lo possono consentire. In realtà l’esito di nuove elezioni non era affatto scontato, in quanto il nuovo capo dello Stato (tecnicamente eleggibile senza i voti di Pdl e M5S a causa dell’abnorme premio di 200 deputati al Pd, che in seduta comune annullano il gap al Senato) avrebbe ben potuto non sciogliere le Camere e magari assecondare le richieste di chi vorrebbe tentare di formare un Governo con qualche senatore grillino in soccorso. Certo, al posto della nomina delle due Commissioni, Napolitano avrebbe potuto individuare direttamente una figura istituzionale o di particolare autorevolezza, lasciando a questa il compito di costruire una maggioranza possibile, ma evidentemente non si è fidato, temendo che un nuovo premier incaricato sarebbe finito nel tritacarne dei veti incrociati. Così il capo dello Stato ha preferito verificare personalmente che prima di tutto si realizzi una pur minima base programmatica condivisa, per poi eventualmente individuare una personalità in grado di realizzarla, raccogliendo la fiducia del Parlamento. Si tratta di un atto di prudenza e – questa sì – saggezza: solo infatti spendendo in prima persona tutta la sua autorevolezza, il presidente Napolitano potrà evitare che all’interesse del Paese si antepongano gli interessi elettorali delle coalizioni.

*Pubblicato anche sul Sussidiario.net

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