Le popolazioni del Corno d’Africa sono sempre più allo stremo delle forze, fiaccate dalla grave carestia, dai conflitti armati e dall’indifferenza della comunità internazionale. La tragedia che sta investendo 13 milioni di persone è stata al centro, proprio nei giorni scorsi, di un incontro tra diverse organizzazioni caritative convocate dal Pontificio Consiglio Cor Unum per la promozione umana e cristiana, istituito da papa Paolo VI nel 1971.

L’organismo rappresenta il braccio operativo del papa nell’ambito di iniziative umanitarie, intervenendo laddove si siano verificate calamità o si renda opportuno promuovere e stimolare azioni caritative.
Un dramma sul quale papa Benedetto XVI è intervenuto più volte, facendo risuonare sia il messaggio evangelico sia quello politico, richiamando cioè l’attenzione dei fedeli e al contempo dei Paesi che potrebbero e dovrebbero assicurare una via d’uscita a un popolo che sta perdendo sempre più di vista il suo futuro e quello dei propri figli.
I numeri parlano chiaro e sono quelli del rapporto dell’Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari delle Nazioni Unite. Secondo questi dati, nel Corno d’Africa ci sono attualmente 13 milioni di persone che necessitano di forme di assistenza urgenti per la carestia derivante dalla prolungata siccità che ha mandato in rovina i raccolti e sta sterminando il bestiame. Una situazione giunta al limite se, sempre secondo questo rapporto, milioni di persone non avranno abbastanza cibo né acqua per i prossimi 3-6 mesi.
Il territorio maggiormente colpito è quello della Somalia con 4 milioni di persone investite dalla crisi umanitaria su un totale di 7 milioni e mezzo di abitanti; 4 milioni e 600 mila in Etiopia, 3 milioni e 75mila in Kenya e 147mila a Gibuti. Ma non basta: questi ultimi tre Paesi, oltre a essere interessati essi stessi dalla crisi ma in forma meno pervasiva, sono meta dei rifugiati che scappano dalle loro terre per cercare la salvezza.
Nonostante gli sforzi delle associazioni caritative, le condizioni degli abitanti di questa area africana sono gravissime, solo in Somalia centinaia di migliaia di bambini versano in stato di malnutrizione.
Una situazione per la quale papa Benedetto XVI ha esortato a unire le proprie forze, mettendo in campo quei valori di solidarietà ma anche di responsabilità che dovrebbero animare ogni Paese.

La Chiesa sta facendo la sua parte con un contributo di 60 milioni di euro cui si aggiungono i 400 mila euro devoluti dal papa ma ad essere latitante, semmai, è la comunità internazionale i cui meccanismi – ha sottolineato il cardinale Robert Sarah, presidente del Pontificio consiglio Cor Unum – “sono improntati alla ricerca dell’interesse di singole nazioni. Prevalgono gli aspetti dell’egoismo anche nella politica internazionale. Dobbiamo lasciarci ispirare a svolgere una politica che abbia a cuore veramente il bene comune”.
Parole che ci mettono dinanzi i conflitti che hanno macchiato e stanno macchiando di sangue diverse aree del globo e che sono stati in parte affrontati con grande dispiegamento di forze e in altri casi, invece, lasciati alla deriva della povertà e della disperazione. È quindi immediata e non dettata dalla malafede l’equazione tra l’interessamento ai problemi di un Paese in difficoltà e gli interessi derivanti da un’azione finalizzata a ristabilire un “ordine”, sia che si tratti di natura politica, economica, sociale, eccetera.
Proprio dinanzi a questo generale silenzio e disinteresse, la Chiesa chiede un impegno serio e immediato per strappare a una morte certa milioni di persone e per consentire loro un futuro.
I problemi non possono mai essere letti singolarmente, pena perdere di vista una visione generale e specifica delle realtà. I disperati in fuga dalla Somalia stanno smarrendo giorno dopo giorno le loro radici e non solo dal punto di vista geografico, per l’obbligato allontanamento dalla loro terra duramente provata dalla carestia e dall’assenza di un governo capace di fronteggiare le emergenze e di rappresentare un credibile interlocutore a livello mondiale. Quello che si sta erodendo è anche il retroterra delle tradizioni e dell’economia locale. Lo attesta la dilagante scelta degli allevatori di vendere i capi di bestiame per comprarsi il cibo necessario per la quotidiana sopravvivenza. Se questa può essere una soluzione valida nell’immediato, domani si rivelerà un boomerang che li lascerà senza più alcuna fonte di sostentamento.
Non a caso il presidente di Cor Unum chiede che questo dramma umanitario venga affrontato percorrendo anche la strada dell’educazione, costruendo scuole non appena sarà conclusa questa difficile fase per garantire a questo popolo istruzione e cultura. Si tratta di una emergenza in cui, ripete il cardinale africano, “ci sono tutti gli ingredienti drammatici che sono presenti in analoghe crisi: un evento catastrofico – in questo caso la lunghissima siccità -, la mancanza di infrastrutture sanitarie, l’insufficienza di personale qualificato per gestire situazioni di emergenza, l’instabilità politica, la corruzione, la povertà endemica del territorio, la mancanza di lavoro. Ma c’è una cosa particolare che mi preoccupa e rischia di pregiudicare il futuro di questa parte del continente africano: i milioni di sfollati che stanno vagabondando alla ricerca di sopravvivenza diventeranno domani profughi, clandestini, senza patria, gente che non ha una casa, un lavoro, una comunità. Una intera generazione rischia di essere perduta”. Mentre un’altra rischia di non aver saputo e voluto tendere la propria mano a un popolo in disperata fuga, verso un futuro.

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