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Nel 2009 un autorevole giornalista del Financial Times, Christopher Caldwell, ha dato alle stampe un interessante volume che si sforza di valutare il fenomeno del multiculturalismo e delle sue ricadute di carattere politico, religioso e sociale in Europa alla luce della cosiddetta teoria “immigrazionista”, corrente di pensiero che ritiene tutto sommato ineludibile, perché vantaggioso ed utile – come risorsa economica ma anche e forse soprattutto culturale – il fenomeno dell’immigrazione (Reflections on the Revolution in Europe. Immigration, Islam, and the West, Penguin, Londra 2009).

Il libro ha l’indubbio merito di aver anticipato l’esplicita “dichiarazione di fallimento” delle politiche che sostengono tout-court il multiculturalismo in Europa, ed al contempo la uniforme “virata” che molti autorevoli governi europei stanno operando, in tempi brevissimi, a livello di politiche legislative al fine di ripensare la gestione politica del fenomeno della società multiculturale , di cui è perno indiscutibile la questione della tutela della libertà religiosa.
La vulgata della società multiculturale, sino ad oggi sostenuta con una certa enfasi retorica ecumenica ma in realtà assai priva di un solido impianto culturale elaborato a tutela delle libertà fondamentali della persona, è in verità la prima vittima delle violente strategie di intolleranza anticristiana perpetrate nei Paesi islamici.
Il dramma delle feroci persecuzioni che in svariate parti del pianeta – in primis nell’area culturale più vicina all’Europa , il Medio Oriente – si stanno compiendo contro le comunità cristiane si può analizzare sotto differenti prospettive disciplinari
Da una prospettiva giuridico-istituzionale, Egitto, Iraq, Sudan, Libano, Turchia e Pakistan, sono Paesi ove l’islam si manifesta in forma totalizzante ed invasiva in seno alla società, perché è – come ricordano autorevolissimi studiosi della società politica islamica, quali i Proff.ri Padre Samir Khalil Samir e Padre Bormann – al tempo stesso società, Stato e religione. Da ciò discende l’assoluta intolleranza della società politica islamica, delle istituzioni legislative, della cultura in generale di quei Paesi nei confronti dei due perni fondamentali che animano la società civile occidentale: lo stato di diritto, che presuppone l’assoluta eguaglianza dei diritti e doveri di ogni persona entro lo Stato, e il modello democratico della rappresentanza politica che riconosce pari dignità a maggioranze e minoranze, in particolare religiose.
L’Unione europea richiede che tali principi, cosiddetti “Parametri di Copenaghen” siano un requisito irrinunciabile ai fini dell’avvio di ogni forma di partenariato e adesione all’Unione stessa. Va da sé che le istituzioni politiche, giuridiche, religiose islamiche siano lontane anni luce dal riconoscere e condividere tali istituti giuridici come elementi fondanti delle loro società. È un dato di fatto difficilmente confutabile che la società islamica abbia accumulato un ritardo preoccupante nel non farsi carico con responsabilità della riflessione sulla tutela delle libertà fondamentali della persona come condivise dal diritto internazionale.
Il lettore sappia a mo d’esempio che la Carta Araba dei Diritti dell’Uomo (promulgata dalla Lega dei Paesi Arabi) non prevede la tutela giudiziaria di tali diritti (e noi sappiamo benissimo che se i diritti non sono giustiziabili non sono nemmeno diritti). Sappia sempre il lettore che all’art.3 della Carta si prevede la “discriminazione positiva” di determinate categorie di persone e diritti in nome della legge divina, la Shari’a. Insomma, con brutale franchezza, non si può ignorare che il principio della reciprocità, presupposto ineludibile di ogni società che voglia responsabilmente garantire la piena eguaglianza e dignità della persona umana, è ben lungi dall’essere riconosciuto da queste società.
In ambito legislativo e istituzionale europeo si stia prendendo atto, con lente ma costanti virate legislative, della necessità di richiedere a codesti Paesi, in cui la libertà religiosa dei cittadini – cristiani in primis – è oggetto di costante criminale discriminazione, l’avvio di un radicale processo di “auto responsabilizzazione”che incida sui più ampi settori delle istituzioni.
Quali indirizzi politici l’Europa sta adottando su questo delicatissimo tema? Diamo al lettore alcuni dati di oggettiva informazione. Il Governo norvegese di Oslo ha impedito al Tawfiiq Islamic Center di edificare moschee sul suolo norvegese con fondi provenienti dall’Arabia Saudita. La motivazione – di assoluta rilevante novità in tema di tutela dei diritti fondamentali della persona nelle relazioni tra Stati – è data dall’assenza di libertà religiosa nel paese islamico.
Ciò significa che la Norvegia, mostrando sulla questione del principio di reciprocità nei diritti fondamentali della persona umana una coerenza e sensibilità istituzionale unica nel panorama politico occidentale, è il primo Stato a chiedere la reciprocità a un Paese islamico.
«Sarebbe paradossale e innaturale – ha dichiarato Jonas Gahr Støre, Ministro degli Esteri norvegese, al quotidiano di Oslo Vg – approvare finanziamenti da un paese che considera un crimine formare una comunità cristiana».
Il Ministro ha aggiunto anche che la Norvegia solleverà questo tema al Consiglio europeo perché lo ritiene un problema comune in Europa.
Nel corso del recentissimo congresso nazionale della CDU svoltosi a Karlsruhe a metà novembre, il leader del Partito Cristiano Democratico Tedesco e Capo del Governo della Germania, Angela Merkel, ha confermato le durissime critiche alla politica ultraventennale di gestione dell’immigrazione nella Repubblica Federale, definendola un fallimento in quanto non ha favorito affatto il processo di integrazione dei cittadini extracomunitari nei costumi e cultura tedeschi. Negli anni si sono creati viceversa enormi quartieri-ghetto di periferia ove la gran parte della popolazione turca di fede musulmana si concentra su sé stessa ruotando attorno ai valori e tradizioni islamiche e rifiutando di riconoscere con reciprocità i valori identitari della cultura tedesca. Ciò è ovviamente causa di una frammentazione del tessuto sociale e di gravi tensioni politiche, giudiziarie, economiche, educative nella gestione del Welfare. Il risultato è stata l’adozione, al Congresso della CDU, di un documento sollecitato dalla Bundeskanzlerin Merkel dal titolo molto eloquente “Deutsche Interessen statt Multikulti” (Interessi tedeschi invece del multiculturalismo Ndr), che oltre ad affermare il fallimento del multiculturalismo promuove la Leitkultur, cioè la cultura dominante tedesca caratterizzata alle comuni radici giudaico-cristiane, sanziona i cittadini extracomunitari che rifiutano di conoscere e adottare la cultura oltre che la lingua tedesca, ponendo le premesse per l’adozione di più rigidi criteri di soggiorno in Germania per gli immigrati.
Appare evidente che in Europa, come in Occidente più in generale, sul tema della società multiculturale si combatte quella che il politologo ex amabasciatore Sergio Romano qualifica una “guerra culturale asimmetrica”: infatti i governi e la società civile fanno riferimento ed appello ad “armi” culturali, politiche, normative che il fronte migratorio – nella quasi totalità di identità culturale islamico – spinto dalla miseria delle condizioni di vita nei Paesi arabi, non conosce né condivide. Tuttavia, e questo appare il nucleo dolente, è altrettanto ragionevole osservare che sui “temi sensibili” della politica, identità culturale, costumi, religione, etica civica le famiglie politiche del Continente non siano state ad oggi capaci di elaborare una riflessione comune e solidamente coerente. O forse abbiano deliberatamente scansato la vexata quaestio in nome di un superficiale quanto opportunistico ecumenismo multiculturale.

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