Oramai siamo abituati ai servizi dei media relativi ai vari fenomeni di crisi idrogeologica che stanno investendo il mondo, ma forse è utile un quadro sulla tematica che ci aiuti ad avere dei punti fermi.
rnUn primo messaggio diretto almeno a sensibilizzarci al problema, se non ad allarmarci, è relativo alla severità dell’evento. I disastri di natura idrogeologica sono quelli che, storicamente, hanno causato il maggior numero di vittime nell’immediatezza. È famoso il caso della grande alluvione dell’inverno 1930 in Cina, causata da un complesso di fenomeni, che avrebbe causato (il condizionale è d’obbligo) un numero di vittime difficilmente precisabile ma di un ordine di grandezza oscillante tra molte centinaia di migliaia ed alcuni milioni.

Probabilmente, invece, se si prendono in considerazione le vittime sul lungo periodo piuttosto che nell’immediatezza questo triste primato spetta ai disastri nucleari.
Inoltre, anche prescindendo da cambiamenti su scala globale degli ultimi anni, occorre dire che le calamità idrogeologiche sono sempre state piuttosto frequenti.
Per chiarire le idee, di che cosa stiamo parlando?
Una definizione piuttosto accademica potrebbe essere quella di fenomeni collegati con il ciclo dell’acqua nell’idrosfera e caratterizzati da tale velocità e parossismo da essere gestibili solo raramente e con difficoltà.
In concreto la tradizionale classificazione, accettata dal Dipartimento della Protezione Civile, elenca sei tipi di fenomeni: frane, alluvioni, erosioni costiere/mareggiate, subsidenze/sprofondamenti, crisi idriche (leggi eventi siccitosi severi) e valanghe.
Penso che non valga la pena di addentrarsi nella definizione scientifica di ognuno di questi sei tipi di fenomeni, questa è facilmente reperibile anche su internet e tutto sommato di scarso interesse per un articolo diretto più che altro a sensibilizzare sul problema.
Desidererei, invece, soffermarmi su alcune questioni che mi sembrano di un certo interesse.
La prima questione riguarda l’entità effettiva del fenomeno in Italia. La fonte più accreditata, a mio parere, restano gli studi del Gruppo Nazionale per la Difesa dalle Catastrofi Idrogeologiche del CNR, sotto la regia del prof. Lucio Umbertini.
Questo gruppo ha prodotto il progetto AVI, un notevole censimento secondo il quale nel XX secolo in Italia sono reperibili informazioni relative a 22000 fenomeni franosi nonché a 7500 informazioni su fenomeni alluvionali.
Occorre dire che queste informazioni non sono tratte unicamente da rapporti di natura tecnica ma anche semplicemente da organi d’informazione per cui la affidabilità scientifica della descrizione non è sempre ottima.
Purtroppo le informazioni relative ai secoli precedenti sono abbastanza scarse, nel periodo che va dal secolo XVIII al XIX abbiamo solo 350 notizie su fenomeni franosi e 750 su fenomeni alluvionali. I secoli che vanno dal XII al XVII ci forniscono una settantina di informazioni, censite dal famoso testo dell’ing. Marcello Benedini e del dr. Giuseppe Gisotti.
Per venire ai nostri tempi, dal secondo dopoguerra ad oggi i fenomeni importanti sono stati 17, si tratta di ricordi che tutti più o meno abbiamo come la Val di Stava, l’alluvione di Firenze del ’66 oppure il Polesine.

Una seconda questione riguarda il funzionamento del sistema di previsione ed allerta in caso di evento. Per sommi capi possiamo dire che la previsione di un evento di piena può avvenire mediante misurazioni della precipitazione al suolo, effettuata mediante rilevamento con apposite stazioni (dette pluviometriche), oppure mediante rilevamento del corpo nuvoloso e dei fenomeni atmosferici in atto, effettuato mediante radar e/o satelliti meteorologici.
Sempre molto all’ingrosso si può ritenere che il primo sistema è quello maggiormente idoneo per il controllo delle piene dei corsi d’acqua maggiori dato che questi eventi presentano generalmente un periodo di gestazione, la cosiddetta “corrivazione”, più lungo. Il secondo, invece, risulta più idoneo per il controllo di corsi d’acqua minori cioè quando non si può attendere l’afflusso meteorico al suolo perché i tempi di formazione delle piene sono troppo rapidi.
Tutto ciò va inteso nel senso di una notevole approssimazione, nella realtà la strategia ottimale prevede un’integrazione di questi sistemi.
Oggi in Italia sono attivi centri funzionali a livello regionale che raccolgono dati previsionali con le apparecchiature suddette e con altre su cui non mi soffermo: li trasmettono ad un centro funzionale nazionale dedicato al rischio idrogeologico/idraulico ove vengono prese le decisioni del caso. Le reti pluviometriche a terra sono molte, gestite da vari enti.
La rete di radar meteorologici comprende una ventina di radar di terza generazione in grado, mediante la polarizzazione elettromagnetica, di indagare molto precocemente lo stato fisico delle precipitazioni. Senz’altro si tratta di uno sforzo importante: nei prossimi anni si prevede l’implementazione di altre stazioni radar fino a giungere al numero di trenta circa tra fisse e mobili.
Vorrei avviarmi alla conclusione di questo contributo con una riflessione circa le cause del fenomeno.
Da colloqui con esperti che ho avuto in questi anni per motivi professionali ho tratto la conclusione che effettivamente una qualche modificazione dei regimi pluviometrici sia in atto; altro è naturalmente dire se si tratta di un trend di lungo periodo oppure di un’oscillazione. Il parere degli esperti, inoltre, ci ribadisce anche che la situazione di “geologia giovane” che caratterizza l’Italia in qualche modo facilita questo genere di fenomeni.
Però penso che non si possa mettere in dubbio che occorra una gestione più oculata del territorio. La materia degli interventi sulle aree sensibili idrogeologicamente nonché sui versanti forestali è regolata da un complesso di molte norme, raggruppabili in tre filoni di dispositivi, dalla più antica che risale al 1877 fino ai recentissimi decreti di questi ultimi anni. Questa situazione rende piuttosto difficile l’instaurarsi di un clima di vera certezza del diritto: è difficile sia per chi amministra onestamente gli interventi sul territorio sia per chi ha compiti di controllo, vivere nella sicurezza dell’osservanza di norme di tutela. Purtroppo è possibile per chi quelle norme non vuole osservarle trovare vie per farlo.
Penso infine che comunque dovremmo fare tesoro del messaggio insito nella cosiddetta relazione di Varnes, o relazione del rischio totale, che è universalmente nota dagli operatori del settore della Protezione Civile e che è utilizzabile per la valutazione del rischio correlato con eventi calamitosi di qualsiasi natura.
Questa ci dice che il rischio è valutabile prendendo in considerazione la probabilità del verificarsi del fenomeno, quindi un giudizio sui fatti, e prendendo in considerazione la vulnerabilità e soprattutto il valore di ciò che è colpito.
Il giudizio di valore, impegnativo per ogni decisore, non può essere evitato, può essere reso trasparente il più possibile, può essere supportato da metodi raffinati ed uniformi ma non può essere evitato.
Probabilmente non sarebbe nemmeno giusto farlo se vogliamo restare essere umani.

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