|

rndi Carlo Modonesi
rnÈ ormai chiaro che quello di Fukushima è un disastro nucleare che verrà pagato unicamente dalla popolazione giapponese, e in particolare dai cittadini che nei prossimi anni si ammaleranno per essere stati esposti alla radiocontaminazione dell’aria, dell’acqua e degli alimenti. Naturalmente, ogni paragone tra i ritardi nella gestione dell’emergenza da parte del Governo giapponese, resi più odiosi da qualche ambiguità di troppo nella comunicazione, e l’atteggiamento indiscutibilmente criminale e negazionista adottato nel 1986 dalle autorità sovietiche in occasione dell’incidente di Chernobyl, è totalmente fuori luogo.

A pochi giorni dal terremoto e dall’esplosione dell’impianto atomico, il Ministero della sanità nipponico annunciava già che nel latte prodotto negli allevamenti ubicati fino a 30 Km dalla centrale si registravano livelli di iodio 131 ben oltre la soglia di sicurezza. Lo iodio 131 (o radioiodio) è uno dei sottoprodotti immediati e biologicamente più aggressivi delle detonazioni nucleari. L’esposizione intensa dell’uomo e degli animali a questo elemento determina, tra le varie cose, la degenerazione rapida delle cellule della tiroide, vale a dire la ghiandola preposta alla sintesi degli ormoni iodati (T3 e T4). Per esposizioni più blande e prolungate, lo iodio 131 diventa un temibile cancerogeno ma, trattandosi di un isotopo labile, in poco tempo decade (emivita pari a 8 giorni) e la sua pericolosità si riduce. Purtroppo lo stesso discorso non vale per altri isotopi radioattivi più longevi e altrettanto pericolosi come, il cesio, lo stronzio o il plutonio.

Probabilmente l’unico nesso che esiste tra i due eventi risiede nelle oggettive proporzioni del disastro atomico, con i suoi esiti sanitari ed ecologici dovuti alla diffusione del tutto incontrollabile di materiali radioattivi. Una prima considerazione che si può azzardare, dunque, è che con questo genere di catastrofi si sa dove si comincia ma non si sa mai dove si finisce. Malgrado i proclami tragicomici che spesso si sentono o si leggono a proposito dell’energia atomica, gli effetti di un incidente nucleare si verificano su scale di spazio, di tempo e di organizzazione ecologica che sfuggono a qualsiasi possibilità di controllo umano. Le tecnologie “disponibili” perché l’uomo tenti di ridurre la portata di eventi come quella di Fukushima o di Chernobyl hanno la stessa proverbiale efficacia dello “scopare il mare con la ramazza”; e il ragionamento potrebbe valere anche per altri disastri ambientali sempre connessi alla produzione di energia, come il colossale sversamento di petrolio dalla piattaforma petrolifera Deepwater Horizon avvenuto giusto un anno fa nel Golfo del Messico.

Sotto gli occhi di tutti restano le gravi responsabilità di un paese che, pur adagiandosi su una delle aree più sismiche della crosta terrestre, ha deciso di disseminare il proprio territorio di centrali a fissione nucleare. In questa scelta, compiuta trascurando evidentemente ogni serio criterio di prevenzione del rischio, è visibile tutta l’assurdità di un modo di concepire i sistemi energetici come semplici arene economiche in cui lasciare piena libertà di azione agli appetiti speculativi. Abbiamo così avuto l’ennesima conferma che politiche come quelle dell’energia — al pari di quelle che riguardano la salute, l’agricoltura o l’ambiente — in tutto il mondo dovrebbero affrancarsi dal modello decisionale basato sul mercantilismo, ed essere guidate da processi aperti a valori differenti.
In ogni caso, qui non ci si addentrerà in una delle tante discussioni sull’energia atomica, a cui è auspicabile che i tristi ed eloquenti fatti di Fukushima abbiano dato un contributo decisivo per porvi la parola “fine”. Si tenterà invece di presentare la tematica energetica per quello che è: da un lato una questione troppo delicata per essere lasciata al giudizio esclusivo di speculatori e gruppi di pressione, e dall’altro una grande opportunità per dischiudere scenari nuovi e dare corso a modi di pensare e di innovare lasciati per troppo tempo senza voce.

Una delle considerazioni meno consuete per gli analisti delle politiche energetiche è che, a dispetto di tanta apologia della globalizzazione dispensata negli ultimi vent’anni, le economie industrializzate non hanno mai mostrato grande curiosità per ciò che di interessante accade nel resto del globo, o addirittura nei suoi ambienti naturali. Ma se una tale ricognizione fosse realizzata con attenzione, per esempio per capire le dinamiche energetiche dei sistemi ecologici, questa rivelerebbe che in molti casi la natura offre modelli energetici virtuosi: modelli, sia ben inteso, dove l’attributo “virtuoso” significa “basato sul principio dell’efficienza”, più che su quello del consumo illimitato.
La cosa è in qualche modo sorprendente, perché a fronte di stili di vita opulenti e consumi di merci bulimici in tutto il mondo avanzato, i calcoli sui flussi energetici, che oggi possono essere compiuti senza troppe difficoltà, pare non abbiano alcuna rilevanza scientifica e culturale. Il fatto che oggi si conoscano sistemi energetici naturali ben collaudati da cui imparare qualcosa su come razionalizzare e ottimizzare la relazione tra produzione e uso di energia, oppure su come implementare misure energetiche tese alla massimizzazione delle efficienze anziché dei consumi, è del tutto ininfluente in qualsiasi dibattito di politica energetica. Allora sono facilmente intuibili le ragioni per cui un piano energetico incardinato su un quadro geopolitico (almeno) macro-regionale e fissato su un orizzonte temporale di lungo termine non rientri nei progetti politici “esplicitamente dichiarati” di nessun governo e di nessun partito politico. Visto sia su scala globale sia su scala locale, tuttavia, il dato è assurdo, anzitutto perché contrario a qualsiasi principio di termodinamica e di energetica ecologica, e in secondo luogo perché sintomatico di un’assenza istituzionale in materia di politiche energetiche che è alla base di molte scelte dissennate: scelte, appunto, come quelle che hanno portato un paese come il Giappone a costruire 50 centrali atomiche su un territorio altamente sismico, o come quelle che hanno portato l’Italia a rifiutare il nucleare domestico per diventare dipendente sia dalle importazioni di gas e altri combustibili fossili provenienti da paesi politicamente instabili, sia dalle importazioni di energia prodotta nelle centrali nucleari di paesi confinanti.
Da tempo immemorabile, queste scelte sono state dominate dal leitmotiv della “fonte energetica più conveniente” (peraltro, senza che nessuno si sia mai preso la briga di spiegare chiaramente quali siano i criteri e i beneficiari di tale convenienza), dando per scontato il fatto che in merito alla questione dei consumi, vale a dire del modello energetico che si vuole realizzare, tutto sia già stato scritto. L’ottica adottata è quella che considera i sistemi energetici di una nazione, o di un gruppo di nazioni, o di un continente, come semplici tessere di realtà fisiche e geopolitiche completamente indipendenti tra loro e dal fattore tempo. Ma una scienza avveduta e non del tutto asservita alle facili speculazioni ci dice che i processi naturali e artificiali che si ripetono nel tempo in un sistema ecologico e termodinamicamente “chiuso” come la Terra, necessitano costantemente di nuovi input di energia e di cicli di materia ben oliati, pena il blocco dei processi.
Intoppi dovuti alle profonde alterazioni provocate dall’uomo a carico dei cicli biogeochimici (si pensi a quello del carbonio, la cui componente gassosa nel comparto atmosferico è oggi troppo alta e responsabile di un’amplificazione dannosa dell’effetto serra), dei tempi di rinnovabilità naturale delle risorse naturali, dell’organizzazione delle comunità biologiche residenti negli habitat, e degli equilibri termodinamici dell’ambiente, possono essere compensati per un periodo di cui non sappiamo prevedere la durata, ma certamente non per un tempo illimitato come vorrebbe l’imperativo della “crescita continua”.

L’impressionante quantità di energia, per lo più di origine fossile e nucleare, incorporata nelle strutture (edifici, strade, impianti di vario tipo, macchine, ecc.) delle città del pianeta, sommata a quella consumata per il funzionamento di “mostri metabolici” come Tokyo o New York o Milano, ha prodotto quantità altrettanto impressionanti di rifiuti costituiti da energia e materia di scarto che vengono trasferiti quotidianamente all’ambiente naturale, spesso a centinaia o migliaia di chilometri di distanza; ma l’ambiente naturale è il principale fornitore di beni e servizi che devono continuamente fluire in misura massiccia verso quelle metropoli per sostenere, appunto, il loro metabolismo mostruoso (si pensi solo all’acqua potabile), ed è su questa incongruenza che prima o poi rischia di innescarsi un corto-circuito globale pericolosissimo.

I sistemi natuali.
Basterebbe guardare al funzionamento dei sistemi naturali per capire che la condizione irrinunciabile di un qualsiasi modello energetico razionale è il possedere un’organizzazione, cioè un complesso di elementi che interagiscono per correggere errori e scarti dalla norma. Anche i singoli organismi, che possono essere considerati degli ecosistemi di piccola scala, possiedono simili circuiti, come nel caso dei dispositivi di controllo del calore interno. Nell’uomo, per esempio, la temperatura fisiologica del corpo viene mantenuta a 37° C a prescindere dal valore della temperatura esterna; il che non significa che la temperatura del corpo è sempre fissata su 37° C precisi, ma significa che le fluttuazioni positive e negative della temperatura interna che si possono registrare nell’arco di una giornata oscillano lungo un intervallo termico al cui centro c’è il valore di 37° C. Gli scarti da questa “zona intermedia” di temperatura vengono rilevati da sensori interni all’organismo e annullati da una sorta di termostato biologico situato nell’ipotalamo.
Per ottenere analoghe possibilità di regolazione delle variazioni di energia, i sistemi naturali devono quindi organizzarsi mettendo in relazione le seguenti proprietà:
1) disporre di fonti energetiche ben distribuite in senso temporale e geografico;
2) disporre di tecnologie efficaci per l’approvvigionamento a tali fonti e per la conversione in tipologie energetiche trasferibili attraverso le reti di distribuzione e utilizzabili dai consumatori;
3) disporre di criteri di razionalizzazione della domanda e dei flussi energetici nei vari comparti del sistema;
4) disporre di misure efficaci di risparmio energetico laddove possibili perturbazioni, dispersioni, inefficienze o consumi anomali interferiscano negativamente con uno o più punti precedenti.

Nei sistemi naturali, il quarto punto è importante quanto gli altri tre messi insieme, perché esercita un controllo a retroazione (tecnicamente un feedback negativo) che obbliga l’intero sistema a rimodulare costantemente il suo funzionamento minimizzando gli sprechi e altri guasti; sprechi e consumi eccessivi che sono la regola nelle grandi città e negli altri ambienti antropizzati ad alta intensità energetica (spesso anche gli ecosistemi agricoli possono avere consumi energetici incontrollati), proprio perché i sistemi economici, per come sono implementati, non possiedono efficaci apparati di controllo a retroazione.
Quanto al problema della fonte energetica primaria, che tanto interessa gli analisti moderni, i sistemi ecologici “si sono scelti” il sole o, più precisamente, si sono scelti lo spettro visibile della radiazione elettromagnetica proveniente dal sole. Un’economia naturale fondata (quasi) esclusivamente sul sole offre almeno due vantaggi: il primo è che la fonte è rinnovabile e non situata all’interno del sistema terrestre e, come tale, non perturbabile dai normali fattori di disturbo “intra-sistema”; il secondo è che la sua equa ripartizione sul pianeta garantisce un rifornimento energetico in tutte le regioni geografiche, in quanto, sia pur con variazioni stagionali, la radiazione solare arriva sulla Terra ovunque.

Per poter sfruttare l’energia solare, gli organismi vegetali (prevalentemente alghe verdi e piante) hanno evoluto un procedimento di micro-fisiologia basato sulla grande abilità delle cellule nel “lavorare” i composti contenenti carbonio: la fotosintesi. Benché il tasso assoluto di energia intercettata dai tessuti degli organismi vegetali sia enorme (grossomodo di 100 terawatt, dove 1 TW = 1012 W = 1012 joule al secondo), vale a dire circa sei volte la stima dei consumi totali di energia della civiltà umana, la fotosintesi converte in energia biochimica solo una parte minima dell’energia radiante totale, con un rendimento medio che, molto ottimisticamente, possiamo fissare intorno al 5%. Grazie alla vasta diffusione della fonte energetica primaria, e alla conseguente facilità di approvvigionamento in ogni ambiente della Terra, gli organismi fotosintetici ogni anno possono trasformare in nuova biomassa vegetale oltre 100 milioni di tonnellate di carbonio, il che forma la base su cui si reggono i flussi di energia e i cicli di materia degli ecosistemi naturali del pianeta.
Un tasso di conversione limitato, abbinato a una disponibilità di energia largamente diffusa sulle terre emerse e negli oceani, ha prodotto nella biosfera una straordinaria varietà di adattamenti biologici. Ciò che viene definito “biodiversità”, dunque, è figlio unicamente di consumi energetici basati sull’efficienza e sulla capacità di autocontrollo della natura, e non di consumi spropositati. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la vita così varia e brulicante come la si può ancora apprezzare nei pochi ecosistemi del mondo non ancora alterati dall’uomo, è figlia di un felice connubio tra “intelligenza e misura” che si è generato centinaia di milioni di anni fa grazie alla disponibilità di energia garantita ovunque dal sole, e al consumo parsimonioso e auto-controllato da parte degli esseri viventi. Il messaggio che arriva dalla natura è chiaro: per avere benessere, bisogna avere buon senso.

Ti è piaciuto questo articolo? Condividilo!

FACEBOOK

© 2008 - 2024 | Bene Comune - Logo | Powered by MEDIAERA

Log in with your credentials

Forgot your details?