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Il termine si riferisce alla limitazione o all’abolizione degli armamenti bellici attraverso un complesso di norme relative al loro uso. Viene accostato al concetto di non violenza e costituisce uno snodo fondamentale della nascita e dello sviluppo del movimento pacifista e non-violento

Il termine si riferisce alla limitazione o all’abolizione degli armamenti bellici attraverso un complesso di norme relative al loro uso. Nel diritto internazionale il disarmo e il controllo degli armamenti hanno una disciplina esclusivamente convenzionale, basata sulla volontà degli Stati (disarmo volontario, reciproco, generale, regionale, temporale o permanente), poiché non esiste un obbligo consuetudinario di disarmo. Il termine disarmo si accosta al concetto di non violenza e costituisce uno snodo fondamentale della nascita e dello sviluppo del movimento pacifista e non-violento. La questione del disarmo s’impone nel Novecento, secolo che ha visto uno sviluppo senza precedenti delle armi belliche e lo scatenarsi di due guerre mondiali. Questo ha dato luogo ad accordi internazionali tesi a ridurre il numero delle armi esistenti, a proibirne la produzione, l’uso e il commercio (gli accordi più importanti riguardano le armi atomiche, quelle chimiche e le mine antiuomo).

 

I movimenti per il disarmo nucleare e la pace

I movimenti pacifisti, antimilitaristi, anti-armamenti nascono dal basso, dall’interno delle società occidentali e non dalle cancellerie e diplomazie.

L’esplosione della prima bomba atomica su Hiroshima (6 agosto 1945) suggerisce non solo l’obiettivo del superamento dei conflitti armati tra Stati ma anche la necessità della pace per la sopravvivenza stessa dell’umanità. Nonostante la nascita dell’ONU (1945), lo scenario dei blocchi politico-militari contrapposti, sovietico e americano, e la connessa corsa al riarmo nucleare e convenzionale, determina negli anni Cinquanta e Sessanta un’egemonia dei partiti socialisti e comunisti sui movimenti pacifisti dell’Europa occidentale, protagonisti di vaste campagne di massa contro la strategia statunitense. Nell’area del Patto Atlantico e della NATO emergono testimonianze e idee di primo piano.

In Italia nasce l’esperienza dei “partigiani della pace”, variamente alimentata dal pensiero di alcuni intellettuali, sia cattolici sia di sinistra, come Giorgio La Pira a Firenze e Aldo Capitini a Perugia, organizzatore della prima marcia per la pace Perugia-Assisi (1961). In Gran Bretagna i pacifisti si oppongono alla decisione del governo di costruire una bomba atomica, dando luogo a uno specifico modello di rifiuto delle armi nucleari e a una forte organizzazione, la CND (Compaign for Nuclear Disarmament, 1958), fondata tra gli altri dal filosofo Bertrand Russell.

Malgrado il moltiplicarsi di numerose associazioni analoghe in tutti i Paesi occidentali, questi movimenti non provocano un mutamento della politica internazionale, che invece si registra parzialmente negli anni Sessanta a opera delle grandi potenze: l’URSS infatti inaugura la politica della coesistenza pacifica con l’Occidente, potendosi in tal modo concludere il trattato sulla limitazione degli esperimenti nucleari (1963, tra URSS, Stati Uniti e Gran Bretagna) e quello di non proliferazione (1968). Proprio allora però una serie di eventi, come le proteste contro la guerra americana in Vietnam e le rivolte giovanili del 1968, rilanciano in tutto il mondo il pacifismo legandolo a nuove rivendicazioni quali l’ampliamento dei diritti civili. Esemplari in tal senso le campagne non violente condotte negli USA da Martin Luther King. Dal 1979 la recrudescenza della guerra fredda tra Stati Uniti e URSS (invasione sovietica dell’Afghanistan, spiegamento in Europa dei missili nucleari sovietici SS-20 e dei Cruise e Pershing II da parte della NATO) apre un nuovo ciclo di protesta pacifista.

Negli Stati Uniti si sviluppa una campagna per il cosiddetto “congelamento degli armamenti”, mentre in Europa prende di nuovo forma un movimento radicato nelle varie culture politiche dei singoli Paesi (Verdi e socialdemocratici in Germania, tradizione unilateralista in Gran Bretagna, protestanti nei Paesi Bassi, sinistra in Italia) che realizza una serie di manifestazioni simultanee in tutte le capitali europee. Caratteristiche di questa fase sono la dimensione di massa raggiunta dal pacifismo, sconosciuta in passato, e il coordinamento internazionale tra le varie organizzazioni. L’impatto così pervasivo del pacifismo finisce per riflettersi anche sui governi, che aprono la strada alle riduzioni “asimmetriche” delle armi atomiche e convenzionali, con il ritiro degli euromissili pochi anni dopo la loro installazione per effetto del trattato INF (Intemediate Nuclear Force), che tuttavia segna in qualche modo il tramonto dei movimenti pacifisti di massa.

La prima metà degli anni ’80 vede anche le Acli fortemente impegnate sul tema della pace. L’iniziativa che segna la presenza dell’associazione sulla linea-guida della pace, è la marcia Palermo-Ginevra che si tiene dal 21 al 28 maggio 1983 sul tema “in dialogo per la Pace” unitamente all’impegno che porta, nel 1990, all’approvazione della legge 185. Figlia di un lungo percorso parlamentare e civile, cominciato proprio negli anni ’80 in risposta agli scandali che investirono il settore militare e i vertici delle aziende di Stato nel settore della difesa, la legge cerca di porre dei principi in un settore in cui la discrezionalità è l’unica norma.

In quegli anni, e precisamente nel 1985, Don Tonino Bello, Vescovo di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo e Terlizzi, diventa presidente di Pax Christi segnando la storia del movimento per la pace e il disarmo italiano fino all’inizio degli anni ‘90. Don Tonino conduce, in prima persona, battaglie contro l’installazione degli F16 a Crotone e degli Jupiter a Gioia del Colle, campagne per il disarmo, per l’obbiezione fiscale alle spese militari, che segnano momenti difficili della vita pubblica italiana. E dopo i suoi interventi sulla guerra del Golfo viene addirittura accusato di incitare alla diserzione.

Storico il suo
discorso pronunciato all’Arena di Verona, il 30 aprile 1989, alla Vigilia dell’Assemblea Ecumenica di Basilea che si conclude con queste parole: “In piedi, allora, costruttori di pace. Non abbiate paura! Non lasciatevi sgomentare dalle dissertazioni che squalificano come fondamentalismo l’anelito di voler cogliere nel “qui” e nell'”oggi” della Storia i primi frutti del Regno. Sono interni alla nostra fede i discorsi sul disarmo, sulla smilitarizzazione del territorio, sulla lotta per il cambiamento dei modelli di sviluppo che provocano dipendenza, fame e miseria nei Sud del mondo, e distruzione dell’ambiente naturale”. Fino agli ultimi giorni della sua vita lotta per questi ideali. E’ emblematico, in tal senso, il suo ultimo viaggio: il 7 dicembre 1992, già gravemente malato, parte insieme a cinquecento volontari da Ancona verso la costa dalmata dalla quale inizia una marcia a piedi che lo avrebbe condotto dentro la città di Sarajevo, da diversi mesi sotto assedio serbo.

 

La difesa della Patria nonviolenta

I maestri della nonviolenza italiani – Aldo Capiti, Lanza del Vasto, Danilo Dolci, Giorgio La Pira, Don Zeno Saltini, Don Lorenzo Milani, Ernesto Balducci, Don Tonino Bello fino a Nanni Salio (solo per citarne alcuni) – hanno formato molte generazioni al metodo non violento come forse non è avvenuto in nessun altro Paese europeo, non separando l’etica dalla politica nonviolenta. Hanno insegnato una nonviolenza politica innanzitutto con la loro testimonianza personale che si poi allargata al piano della trasformazione sociale, dedicando un attenzione al tema della riduzione e del controllo delle armi. In questa sede faremo riferimento in particolare al pensiero di Don Lorenzo Milani sul tema della difesa della Patria non violenta, a cui quest’anno è legato un importante anniversario.

Questi testimoni hanno dato vita al diffondersi di diverse esperienze: da quella degli obiettori di coscienza che prestavano il servizio civile e quella degli aderenti alla Campagna nazionale di disobbedienza civile fino a quella di obiezione alle spese militari per la difesa popolare nonviolenta.

Tutto questo percorso ha portato all’approvazione da parte del Parlamento italiano della legge n. 230/1998 “Nuove norme in materia di obiezione di coscienza”, che per la prima volta (all’art. 8 lett. e) parla di una “difesa civile non armata e nonviolenta” da parte dello Stato. E con le sentenze della Corte costituzionale n.164 del 1985 e n. 228 del 2004 si è sancito che il dovere costituzionale dei cittadini della difesa della Patria, possa venire svolto in maniera equivalente con modalità diverse e/o estranee alla difesa militare.

 

Don Milani: l’obbedienza non è più una virtù
Esattamente 50 anni fa, il 15 febbraio del 1966, Don Milani viene assolto nel processo di primo grado, nel quale viene accusato di apologia di reato per aver difeso – con una risposta pubblica al comunicato stampa infamante dei cappellani militari – gli obiettori di coscienza cristiani in carcere. Già gravemente ammalato, qualche mese prima il Priore di Barbiana manda ai giudici un’autodifesa scritta.

Il processo a don Milani – i cui atti sono raccolti nella famosa pubblicazione L’obbedienza non è più una virtù – sono una tappa fondamentale nello sviluppo della consapevolezza pubblica che porterà, da lì a qualche anno (1972), alla prima legge italiana che prevede la possibilità di obiettare per motivi di coscienza al servizio militare obbligatorio, svolgendo un servizio civile sostitutivo. Tuttavia, sia nella lettera ai cappellani militari sia nella successiva ai giudici, don Milani non si limita a ribadire i motivi di coscienza – ancorati al Vangelo ed alla Costituzione italiana – che fondano legittimamente la scelta degli obiettori in galera, ma mette in discussione il principio della difesa militare della Patria.

Don Milani scrive ai cappellani militari: “se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri”.

Viene proposta una importante evoluzione del concetto di Patria, che supera i confini geografici e nazionalistici e diventa l’appartenenza ad una condizione sociale universale. Concetto che ribadisce con maggior precisione nella ‘lettera ai giudici’: “ai miei ragazzi insegno che le frontiere son concetti superati. Quando scrivevamo la lettera incriminata abbiamo visto che i nostri paletti di confine sono stati sempre in viaggio. E ciò che seguita a cambiar posto secondo il capriccio delle fortune militari non può essere dogma di fede né civile né religioso”. Sganciare la patria dal riferimento ai confini e ricordare che questi ultimi sono transitori, mette già in discussione la necessità della loro difesa militare, ma – a partire dall’articolo 11 (ripudio della guerra) e dall’articolo 52 (difesa della Patria) della Costituzione – Lorenzo Milani misura anche un secolo di storia del nostro esercito, dimostrando come più che di difesa sia “intessuta di offese alle Patrie altrui”.
Rispetto alle quali chiede ai cappellani militari di spiegare chi davvero abbia difeso la patria e il suo onore: “quelli che obiettarono o quelli che obbedendo resero odiosa la nostra Patria a tutto il mondo civile?”. Questo è il fondamento dell’idea che la vera difesa del Paese, anziché dall’obbedienza militare, passi – al contrario – attraverso l’obiezione di coscienza. E quindi attraverso un’altra idea di difesa.

 

La Dottrina sociale delle Chiesa sul disarmo

Giovanni XXIII, l’11 aprile del 1963, pubblica l’enciclica Pacem in terris, dove si dichiara che è irrazionale (alienum a ratione) pensare che la guerra sia strumento adatto a risarcire il diritto violato e che è illusorio e pericoloso basare la pace sull’equilibrio degli armamenti. Si invita a ridurre simultaneamente e reciprocamente gli armamenti dichiarando la necessità di un disarmo integrale, anche degli spiriti, perché la pace si costruisce sulla fiducia reciproca. Per risolvere i conflitti internazionali la Chiesa propone di sostenere l’ONU e le organizzazioni internazionali.

Il Concilio Vaticano II, nella Costituzione Gaudium et Spes elogia la difesa nonviolenta (disarmata) (n. 78) affermando che non è scusabile l’obbedienza a ordini criminali perché contrari al diritto delle genti; le leggi devono provvedere a chi per motivi di coscienza rifiuta l’uso delle armi mentre accetta un altro servizio alla comunità. Non si può quindi negare ai governi il diritto alla legittima difesa, in mancanza di una autorità internazionale efficace e i militari che fanno il loro dovere concorrono alla stabilità della pace (n. 79); la guerra moderna va considerata con mentalità completamente nuova; ogni atto di guerra che mira ad una distruzione vasta e indiscriminata è delitto e va condannato con fermezza (n. 80). E Il Concilio dice ancora che la corsa agli armamenti è una delle piaghe più gravi dell’umanità, danneggia i poveri, produce stragi (n. 81) e che tutti devono impegnarsi per far cessare la corsa agli armamenti, non unilateralmente, ma con uguale ritmo, accordi e garanzie (n. 82).

Paolo VI, richiamandosi alla lezione della Pacem in terris, il 26 marzo del 1967 nell’enciclica Populorum progressio parla dello sviluppo come nome nuovo della pace affermando che “la pace non si riduce a un’assenza di guerra, frutto dell’equilibrio sempre precario delle forze. Essa si costruisce giorno per giorno, nel perseguimento d’un ordine voluto da Dio, che comporta una giustizia più perfetta tra gli uomini”. E nello stesso anno, l’8 dicembre scrive il primo messaggio della pace spiegando con queste parole la motivazione della sua scelta: “Ci rivolgiamo a tutti gli uomini di buona volontà per esortarli a celebrare ‘La Giornata della Pace’, in tutto il mondo, il primo giorno dell’anno civile, 1° gennaio 1968. Sarebbe Nostro desiderio che poi, ogni anno, questa celebrazione si ripetesse come augurio e come promessa (…) che sia la Pace con il suo giusto e benefico equilibrio a dominare lo svolgimento della storia avvenire”.

Il pontificato di Montini sin dal suo inizio si dimostra molto attento al tema della pace, non solo per l’istituzione dei messaggi per la pace. Infatti, già nel 1965, nel discorso tenuto all’Assemblea dell’ONU il 4 ottobre 1965, afferma, proprio sul tema del disarmo: “Alla nuova storia, quella pacifica, quella veramente e pienamente umana, quella che Dio ha promesso agli uomini di buona volontà, bisogna risolutamente incamminarsi; e le vie sono già segnate davanti a voi; la prima è quella del disarmo. Se volete essere fratelli, lasciate cadere le armi dalle vostre mani. Non si può amare con armi offensive in pugno. Le armi, quelle terribili specialmente, che la scienza moderna vi ha date, ancor prima che produrre vittime e rovine, generano cattivi sogni, alimentano sentimenti cattivi, creano incubi, diffidenze e propositi tristi, esigono enormi spese, arrestano progetti di solidarietà e di utile lavoro, falsano la psicologia dei popoli”.

Giovanni Paolo II esprime orientamenti molto chiari a Hiroshima (1981), all’Onu (1982) e a Roma (1983) sulla riduzione degli armamenti nucleari, come scelta moralmente e umanamente valida in vista di un definitivo disarmo, come pure sul difendere i diritti umani, beni fondamentali della persona, considerandoli via privilegiata per costruire la pace e lottare per la giustizia senza violenza. Pur considerando la guerra legittima, come ultima ratio, chiede sempre di affidare il ristabilimento dell’ordine internazionale all’Onu, perché ogni contenzioso sia risolto in maniera collegiale e incruenta. Il suo grido “mai più la guerra” invoca una pace giusta, acquisita con il diritto internazionale, il dialogo leale, la solidarietà fra gli Stati, l’esercizio della diplomazia. La popolazione civile va sempre difesa con interventi umanitari e, solo dinanzi al fallimento dello strumento diplomatico e di altre soluzioni, Wojtyła considera doveroso fermare l’aggressione anche con la presenza militare, a difesa del bene comune universale e dei diritti umani.

Qui richiamiamo il discorso tenuto all’Assemblea generale dell’ONU del 2 ottobre del 1979 dove – dopo aver ricordato il discorso tenuto nel 1965 da Paolo VI – si afferma, tra l’altro, proprio sul tema del disarmo: “Non meno ci turbano le informazioni sullo sviluppo degli armamenti, che oltrepassano mezzi e dimensioni di lotta e distruzione mai finora conosciuti. Anche qui, incoraggiamo le decisioni e gli accordi che tendono a frenarne la corsa. Tuttavia la minaccia della distruzione, il rischio che emerge perfino dall’accettare certe “tranquillizzanti” informazioni, incombono gravemente sulla vita dell’umanità contemporanea. Anche il resistere a proposte concrete ed effettive di reale disarmo – come quelle che questa Assemblea ha richiesto, lo scorso anno, in una Sessione Speciale – testimonia che – con la volontà di pace dichiarata da tutti e dai più desiderata – coesista, forse nascosto, forse ipotetico, ma reale, il suo contrario e la sua negazione”.

Francesco interviene sul tema del disarmo associando la fabbricazione e il traffico delle armi al sangue di tanti innocenti vittime della follia della guerra. Ha denunciato la relazione causa-effetto tra commercio degli armamenti e migrazioni affermando che è dovere di ogni persona fermare il commercio delle armi. E lo scorso ottobre nel discorso tenuto davanti al Congresso degli Stati Uniti dopo aver proposto quattro punti di riferimento (Abraham Lincoln, Martin Luther King, Dorothy Day e Thomas Merton) della lotta per la libertà, la fraternità, la giustizia e la pace denuncia la “tendenza sempre presente alla proliferazione delle armi, specialmente quelle di distruzione di massa come possono essere quelle nucleari” e l’affermarsi di “un’etica e un diritto basati sulla minaccia della distruzione reciproca”.

 

Il commercio d’armi nel mondo

L’Istituto Svedese di Studi per il Disarmo (SIPRI) nel sul Rapporto annuale del 2015 dal titolo Armaments, Disarmament and International Security afferma che “La spesa militare mondiale del 2014 è stimata a 1.776 miliardi di dollari, equivalente al 2,3% del PIL mondiale o a 245 dollari per persona. In termini reali, la spesa totale è inferiore di circa 0,4% rispetto al 2013. Le spese militari hanno continuato ad aumentare velocemente in Africa, Europa orientale e Medio Oriente. Combinato ai numerosi conflitti regionali, il prezzo del petrolio, che si è mantenuto alto fino all’ultima parte del 2014, ha contribuito all’aumento delle spese militari in molti dei principali paesi in queste regioni. I conflitti in Ucraina, in Iraq e in Siria, tra gli altri, continueranno probabilmente ad alimentare la spesa militare in un certo numero di stati in queste regioni”.

Contrariamente gli annunci
del Ministero della Difesa, la spesa militare italiana non accenna a diminuire, in particolare quella per l’acquisto di nuovi armamenti. Da un approfondito esame delle cifre contenute nel nuovo Documento programmatico pluriennale della Difesa (Dpp 2015-2017), risulta che le forze armate italiane – Carabinieri esclusi – ci costeranno anche quest’anno 17 miliardi di euro, di cui ben 4,7 miliardi per l’acquisto di aerei e navi da guerra, carri armati, missili e fucili: la stessa cifra spesa nel 2014.

Secondo i dati diffusi dalla Rete Italiana per il Disarmo lo scorso luglio – in occasione del 25º anniversario di approvazione della Legge 185/90 che regolamenta l’export militare del nostro Paese – Il traffico delle armi dall’Italia ormai è totalmente fuori controllo; 54 miliardi di euro di autorizzazioni e 36 miliardi controvalore per effettive consegne di sistemi d’arma, venduti a 123 paesi.  Come osserva Giorgio Beretta, analista di Opal di Brescia “Se nel quinquennio 2005-2009 l’area di maggior vendita delle armi italiane è stata l’Unione Europea, in quello successivo il primato è invece andato al Medio Oriente e al Nord Africa, regioni tra le più turbolente del globo“. In queste zone, negli ultimi cinque anni, le vendite autorizzate sfiorano i 5 miliardi di euro. “Se poi ci limitiamo agli ultimi cinque anni – osserva ancora Beretta – ai primi posti ci sono Algeria, Arabia Saudita ed Emirati Arabi, con il solo inserimento degli onnipresenti Stati Uniti al terzo posto. È chiaro dunque in che direzione stiano andando gli affari dell’esportazione militare italiana“.

Nel periodo 1990-2014 la triste “top 12” dei Paesi destinatari di armi italiane vede ai primi posti Stati Uniti e Gran Bretagna, seguiti a ruota da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Scorrendo la lista si incontrano diversi Stati problematici dal punto di vista delle tensioni interne e internazionali: Malesia, Algeria, India e Pakistan. Sempre più armi italiane vendute ai paesi in guerra nonostante i principi della 185/90 prevedono il divieto di esportazione di armamenti verso Paesi in stato di conflitto armato e Paesi la cui politica contrasti con l’articolo 11 della Costituzione italiana. Ed è bene ricodare come la legge 185/90 impone al Governo di presentare alle Camere una relazione annuale relativa alla compravendita di sistemi d’arma. Peccato che questo strumento viene progressivamente svuotato di senso, fino a diventare quasi inutilizzabile.

Francesco Vignarca, coordinatore nazionale della Rete Italiana per il Disarmo, in diversi suoi contributi denuncia il fenomeno dei mercenari affermando significativamente: “La maggiore preoccupazione è che la privatizzazione della guerra e la diffusione delle compagnie militari private possano essere legittimate, divenendo una scelta politica di fondo, senza passaggi condivisi e quasi solo “per osmosi”. (…) C’è da temere che gli stati in declino possano cedere in blocco alcuni pezzi di sovranità e inizino a pensare che per alcuni aspetti sia meglio abbandonare una gestione diretta – e per questo, in ultima analisi, democratica – per favorire, al contrario, un regime di azione privato ipoteticamente più conveniente, forse solo in termini monetari”.

 

La riconversione dell’industria bellica

Tutti gli studi e le analisi sul settore prevedevano l’attuale fase di riduzione degli occupati delle industria del settore bellico. In questo settore solo le imprese che guidano i processi su scala europea o le aziende e/o i distretti industriali che hanno accresciuto la loro diversificazione nei mercati civili, riducendo la loro dipendenza complessiva dal settore militare, saranno meno vulnerabili sul lato occupazionale.

La conversione e diversificazione nel civile è oggi una scelta auspicabile, oltre che per ragioni di natura etica, per motivi di politica industriale e di lavoro, al fine di tutelare l’occupazione delle persone coinvolte e di rispondere alle loro attese professionali. Per fare questo servono misure di sostegno alla riqualificazione professionale, all’accompagnamento verso la pensione, al trasferimento di skill e competenze in altri campi di attività; sia di misure per la reindustrializzazione di quei territori ad alta dipendenza da commesse militari, favorendo un approccio territoriale alla diversificazione e riconversione nel civile.

 

Il valore economico della pace

Nel 2014 il Pil americano è di 16,8 mila miliardi di dollari mentre il costo delle guerre è di 14,3 mila miliardi. In un’ipotetica equazione, per dare un senso alle misure, sottraendo al prodotto interno Usa il costo delle guerre resterebbe il Pil dell’Italia. Dal 2008 ad oggi l’impatto dei conflitti sull’economia è aumentato del 15,3%, complici gli inasprimenti delle situazioni in Siria, in Iraq, in Somalia e nel meridione del Sudan. Lo rivela iI Report 2015 dell’Institute for Economics and Peace. E l’indagine entra ancora più nel dettaglio, cercando di stabilire i costi diretti e quelli indiretti causati dai conflitti. Tra i primi figurano ad esempio le spese relative alle incarcerazioni, alle infrastrutture e agli immobili distrutti durante gli attacchi e al supplemento di budget assegnati alle forze dell’ordine. Sono invece riconducibili ai costi indiretti la perdita di Pil, le spese sanitarie e i crimini sessuali.

Il concetto di “moltiplicatore” cerca di quantificare l’impatto dei costi sull’economia mondiale, ad esempio quando un Paese in cui si consuma un conflitto diminuisce le esportazioni dei beni prodotti in patria, causando quindi disagi e minori introiti in quei mercati che fanno affidamento sulle importazioni di materie prime. Queste analisi così dettagliate forniscono dati inconfutabili sul fatto che la pace conviene anche sul piano economico.

 

L’impegno della società civile e il nuovo modello di difesa

L’azione della società civile mondiale ed italiana sul tema del disarmo è vasta e ha prodotto apprezzabili risultati. La Rete disarmo italiana, di cui fanno parte anche le Acli, in questi anni ha promosso e attivato molte campagne tra cui ricordiamo: Contro i mercanti di armi – Difendiamo la 185; Control Arms, Taglia le Ali alle armi, Un futuro senza atomiche, Abolition Now (Campagna Globale per la Messa al Bando delle Armi Nucleari), Banche Armate e la Campagna italiana contro le Mine.

Segnaliamo in particolare l’azione che porta alla stipula del Trattato internazionale sugli armamenti (ATT), entrato in vigore nel dicembre 2014, che segna un passaggio epocale importantissimo per il controllo e il monitoraggio dei sistemi d’arma convenzionali. Con esso si cercherà di introdurre la possibilità di far prevalere considerazioni legate ai diritti umani e alla sicurezza delle popolazioni sugli affari ed i guadagni legati a questo tipo di produzione.

Vi è poi la questione del nuovo modello di difesa su cui la società civile sta riflettendo avanzando proposte concrete. Facciamo riferimento in particolare alla riflessione teorica sulla trasformazione nonviolenta dei conflitti di Johan Galtung  – fondatore nel 1959 dell’International Peace Research Institute (PRIO) e del Galtung-Institute for Peace Theory and Peace Practice – che ha proposto, tra l’altro, il concetto di transarmo ossia “la trasformazione dell’armamento da crescente a calante, soprattutto da strutturalmente offensivo, aggressivo, a strutturalmente, esclusivamente difensivo”. Secondo il noto studioso norvegese tra il riarmo e il disarmo c’è una terza via il transarmo inteso come: “processo di transizione da un modello di difesa fondato su armi di offesa a un modello di difesa che utilizza esclusivamente armi difensive, sino alla loro totale estinzione nel caso della difesa popolare nonviolenta. Comporta un mutamento profondo della dottrina di sicurezza militare e costituisce l’effettiva premessa per un reale e duraturo disarmo generalizzato in quanto non si limita a proporre lo smantellamento dei sistemi d’arma lasciando inalterato il meccanismo che li genera, ma modifica il punto di vista, il paradigma e la dottrina militare”.

 

La Campagna “Un’altra difesa è possibile”

In questo mezzo secolo sono accadute molte cose nel nostro Paese ed oggi il servizio civile è ormai formalmente, per l’ordinamento italiano, parte di una modalità di difesa della patria alternativa a quella militare. Ma in realtà i due modelli di difesa non sono, in nessun modo, comparabili: lo strumento militare è sempre più potenziato e finanziato e utilizzato nell’offesa delle “Patrie altrui”, come scriveva don Milani, mentre la difesa civile, non armata e nonviolenta – salvo poche decine di milioni l’anno per il servizio civile (e il collegato esperimento transitorio dei corpi civili di pace) – non ha risorse, ne organizzazione, ne preparazione adeguate. La campagna Un’altra difesa è possibile, a cui aderiscono anche le Acli, ha depositato oltre 53.000 firme in Parlamento con l’obiettivo di ottenere un riconoscimento della pari dignità, con tutto ciò che ne consegue.

Dopo sei mesi di raccolta firme e il loro depositato in Parlamento, a cinquant’anni dal processo a don Milani, la proposta di legge di “Un’altra difesa è possibile” è ora assegnata alla discussione delle commissioni della Camera dei Deputati, grazie anche alla presentazione di un identico progetto di legge di iniziativa parlamentare, a cura di sei deputati di diverse forze politiche, aderenti all’intergruppo dei Parlamentari per la pace. La Campagna dei movimenti per la pace, la nonviolenza, il disarmo e il servizio civile – che ha visto gruppi territoriali presenti e coordinati in tutte le regioni italiane – sta entrando nella seconda fase, quella più politica che vuole sollecitare tutti i parlamentari sui temi della difesa del Paese, sui contenuti specifici della Legge e sulla sua calendarizzazione.

 

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