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A 40 anni dalla strage di via Fani, parla Giovanni Ricci: «Il mio 16 marzo». L’incontro con Morucci, Bonisoli e Faranda. «Ho voluto un passo in avanti».

Giovanni Ricci non ha ancora 12 anni. È un bambino che ama giocare. Anche con il padre, un uomo che aveva il sogno di fare il carabiniere. Insieme vanno al cinema, al mare, al circo. Ma tra le ore 9 e le 9.05 del 16 marzo 1978 un fatto cambia per sempre la vita del piccolo Giovanni. Suo padre è Domenico Ricci, appuntato dei Carabinieri, da 20 anni nella scorta di Aldo Moro.

Domenico Ricci

È lui a guidare la Fiat 130 su cui viaggia il presidente della Dc quando viene rapito a via Mario Fani, nel quartiere Trionfale. I terroristi uccidono tutti gli uomini della scorta: Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Francesco Zizzi, Giulio Rivera e Raffaele Iozzino. Il corpo di Aldo Moro verrà trovato in via Caetani il 9 maggio del 1978.

Cosa ricorda di quella mattina?

Ero a casa perché a scuola facevamo i doppi turni e quella settimana andavo di pomeriggio. Quel 16 marzo 1978 era un giovedì. Alle 9.30 un’amica di mia madre chiamò per sapere se papà fosse in servizio. Accendiamo la tv e vediamo sotto il lenzuolo bianco la mano di mio padre che penzolava. La riconosciamo perché al polso aveva l’orologio Zenit che aveva comprato a piazza del Gesù. L’unico regalo che si era concesso. La cosa che non dimenticherò mai è l’edizione di “Repubblica” che mostrava la foto di mio padre senza lenzuolo. Mi ha distrutto.

Cosa cambiò dentro di lei?

Avevo la coscienza di aver perso un padre ucciso da uomini di cui non sapevo niente. E mi sentivo diverso dagli altri compagni che avevano perso un familiare. A me non l’aveva portato via una malattia o un incidente, ma degli uomini. Questo innescò odio e rabbia verso chi mi aveva tolto quel dolce papà, il complice della mia infanzia. Avevano sparato 90 colpi.

Quando vide suo padre l’ultima volta?

La sera del 15 marzo arrivò a casa verso le 23. Io, quel giorno, avevo fatto una partita a calcio. Avevo perso. Lui mi disse di non preoccuparmi e che avrei vinto un’altra partita. Poi mi accarezzò. Per l’ultima volta.

Quali ricordi affiorano?

Molti. Ho una memoria molto nitida. Le vacanze al mare al lido dei Carabinieri, a Focene, sul litorale romano. Lui arrivava al mare verso le 6 e rimaneva in spiaggia fino alle 8.30. Raccoglieva le telline e poi andava a casa e preparava il pranzo per tutti. Poi le gite nelle Marche, al circo o le uscite per vedere i film di Totò in un cinema di seconda visione vicino a casa. Aveva poco tempo ma cercava di darci il massimo. Per noi figli era un complice. Ci diceva di non far arrabbiare nostra madre e, poi, ci faceva l’occhiolino.

Durante le feste era con voi?

A Natale e a Capodanno non c’era mai. Insieme a Oreste Leonardi era la scorta storica di Aldo Moro. Ma immancabile c’era per l’Epifania. Ricordo che nella casa dei miei nonni c’era una stufa a legna dove si lasciavano ad asciugare i panni. Lì trovavamo i regali.

La cosa che le è mancata di più?

La sua complicità.

Ha seguito la vicenda giudiziaria del caso Moro?
Sì. Era un’ossessione. Davanti a me avevo sempre l’immagine che “Repubblica” aveva pubblicato di mio padre. In me cresceva odio e vendetta.

Sua madre come ha vissuto questo lutto?

Mi ha insegnato a non volere la vendetta, ma a comprendere. Mi diceva di andare oltre e di non farmi vincere dall’odio.

Come ha superato l’odio e la vendetta?

Nel 1996 è nato mio figlio. In quel momento mi sono fatto una domanda: «Ma lui se dovesse conoscere i figli dei terroristi, la vendetta sarebbe la cosa giusta?». Lì ho avuto la scintilla.  Dovevo cambiare. Non potevo continuare a distruggermi. Dovevo vincere l’odio e la rabbia, il mostro dentro l’armadio.

Ha conosciuto i terroristi?

Sì ho incontrato Valerio Morucci, che ha ucciso mio padre. E poi Franco Bonisoli e Adriana Faranda. È successo nel 2012. Ho voluto confrontarmi con loro. La giustizia penale ti dà sicurezza della pena. Ma non cessa il tormento interno. Ho voluto un passo in avanti. Nei terroristi non ho più visto il mostro ma delle persone. Ho guardato i loro occhi, le bocche, le voci. Questo mi ha permesso di riconciliarmi col passato. Loro per uccidere avevano ridotto le vittime a oggetto. Io ho fatto il percorso inverso. Non li vedevo più come assassini ma persone.

Come è stato l’incontro con Valerio Morucci?

L’ho visto piangere per il male fatto. Mi ha chiesto: «Tu sai chi sono io?». Gli ho risposto: «La tua croce è più grande della mia». Nonostante il dolore per la perdita di mio padre ho ripreso a vivere. Non sono più una vittima, sono rinato come una persona.

Ha perdonato?

Sì, perché ho compreso, guardando gli occhi degli assassini, che le loro ferite non spariranno mai. Non solo. È un dolore che continua. La moglie e i figli dei terroristi pagano le colpe dei padri e questo è inaccettabile. Dobbiamo ascoltarci e riconoscerci come persone. Questo permette il superamento della rabbia, dell’odio e della vendetta.

Oggi quegli anni cosa ci insegnano?
Purtroppo non sono conosciuti dalle nuove generazioni. Noi come testimoni dobbiamo raccontare. Sempre. Per questo è nato “Memoriando tv”, il primo canale YouTube creato dai familiari delle vittime. Un’iniziativa fatta insieme a Giampaolo Mattei, fratello di Stefano e Virgilio, morti nell’incendio della loro casa nel quartiere romano di Primavalle il 16 marzo 1973 per opera di  alcuni aderenti al movimento extraparlamentare di estrema sinistra Potere operaio.

Che cosa pensa del periodo storico che stiamo vivendo?

È un’epoca in cui c’è grande violenza verbale. Ci sono molti cattivi maestri che seminano odio. Non bisogna odiare il sistema, la norma, l’ordine stabilito dalla Costituzione. Oggi la politica è fatta con i social e si confonde nazismo, fascismo, comunismo. In questo clima ci si fa giustizia da soli e si prende una pistola. La violenza non è mai la soluzione. L’unica strada è la pace che porta al bene e a stare bene.

Ripubblichiamo questa intervista apparsa il 15 marzo 2018 su Romasette.it

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