Negli ultimi anni si è assistito ad una rinascita, da parte del pensiero cattolico, della riflessione sul diritto naturale. L’esigenza di fondo è chiara: sostenere l’esistenza di verità, teoriche ed etiche, che sono accessibili dal lume della ragione a tutti gli uomini, indipendentemente dalla rivelazione.

Con ciò si afferma un principio, per così dire, di laicità, ossia di autonomia rispetto alla religione. Ma con ciò si afferma anche che determinati principi, che sono in continuità ed accordo con il dato rivelato, sono validi universalmente. rn

Le origini di questa idea vanno rintracciate nella Scrittura (in particolare nei primi capitoli della Lettera ai Romani, dove appunto si sostiene che la legge obbliga anche i pagani, perché iscritta nella natura), ed essa è patrimonio costante della tradizione cattolica, ma spesso anche cristiana in generale. Tuttavia, se è chiaro ciò di cui ne va con la presupposizione che alcune verità siano fondate nella natura umana (ad essa o a suoi surrogati ricorrono quasi sempre le teorie che mirano a fondare diritti umani universali), altrettanto problematica appare la possibilità di trovare accordo sulle caratteristiche da assegnare a questa presunta natura: impossibile, infatti, è sottrarsi all’obiezione che tutti i tratti che di volta in volta vengono proposti, e che non sono meri dati biologici, siano in realtà di tipo culturale. Da qui la paradossalità di cui si diceva: garantire al contempo autonomia e continuità rispetto alla rivelazione.

Dove porre, allora, il confine tra i due ambiti? Porlo troppo avanti, ossia sostenere una eccessiva fiducia nei confronti della natura conduce a negare la necessità della rivelazione e della salvezza. Porlo troppo indietro, conduce invece a negare la creazione, ossia la possibilità che l’uomo, anche senza il cristianesimo, ma appunto per natura, sia capace di una qualche verità o di un qualche bene. Pelagianesimo, dunque, di contro a predestinazionismo. Non a caso, la posizione cattolica, tendenzialmente conciliarista, è stata attaccata storicamente sia dal versanti “filosofico”, “razionalista” ed “illuminista”, sia da quello “protestante” o “giansenista”, che sostengono in modo radicale la sufficienza della grazia e negano il libero arbitrio. La posizione mediatrice cattolica risponde quindi ad esigenze teoriche sin troppo compensibili, anche a livello strettamente teologico: necessità della grazia per la salvezza, ma contemporanea possibilità di salvezza anche per chi non conosce la rivelazione. Il diritto naturale nasce per rispondere a questo bisogno di conciliazione. Proprio come la teologia naturale.

Ma la posizione mediatrice rischia di vanificare la specificità sia della rivelazione, che della creazione. Per redimere una natura corrotta, la grazia le deve essere eterogenea. Per influire su di essa, deve al contempo parteciparvi. Chi non conosce la rivelazione può salvarsi? Allora la rivelazione non è indispensabile. Nessuno può prescinderne? Allora Dio è palesemente ingiusto, scegliendo da principio chi deve essere salvato, indipendentemente dai meriti.

Esistono tuttavia forti fondamenti teologici per considerare anche la creazione come parte dell’unico movimento divino di, per così dire, uscita da sé della rivelazione. In questo modo si indica una direzione per cercare di evitare di considerare rivelazione e creazione come due ambiti eterogenei, e tuttavia non si sottopone la rivelazione alla creazione, rendendo piuttosto la seconda una specie della prima. Non esiste qualcosa di neutro, di non dipendente da Dio: tutto è già rivelazione, tutto è grazia. Anche la cosiddetta “natura”. Sta all’uomo aprirsi completamente a questa rivelazione e a questa grazia, e ciò avviene in gradi diversi nelle esistenze di ciascuno di noi così come nelle epoche storiche, senza che sia esattamente misurabile e determinabile il tasso di naturalità o cristianità di un’azione, una vita, una circostanza, un’epoca, ma facendo invece inevitabile riferimento, per la posizione di limiti e definizioni, al contesto.

Non a caso, è dottrina cattolica di scuola che lo stato di natura pura e lo stato di natura decaduta si distinguano solo come si distingue un uomo a cui è stato rubato il vestito da un uomo semplicemente nudo. Ossia, appunto, in base ad una vicenda e ad un contesto. L’idea della natura è un’astrazione teorica, perché siamo sempre già sotto lo sguardo altrui, con una storia alle spalle, in una società, in cui una situazione è pesata e valutata in moneta corrente: possiamo evidentemente dire che un uomo è nudo, ma poi il valutare sulla bellezza o adeguatezza del suo abbigliamento dipende dalle latitudini, dai climi, dalle epoche, dal ruolo sociale, dalle circostanze etc… E quindi non possiamo né pretendere che resti nudo, né imporre un vestito preconfezionato. Ma invitare a rivestirsi dell’uomo nuovo. Proprio così si evita alla radice la polemica sul latitudinarismo o sul relativismo: si tratta, per i cristiani, di ispirarsi con convinzione alla radicale e soprannaturale proposta del testo della rivelazione, e di tradurla in natura sulla base dell’interpretazione datane dal con-testo della vicenda storica della tradizione.

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