|

Tutte le grandi religioni abramitiche, in genere, sacralizzano l’atto ospitale, esprimendo la convinzione che in esso Dio stesso manifesta qualcosa della sua presenza…

I temi della stranierità, dell’itineranza e della necessaria accoglienza sono profondamente biblici e non solo giustapposti alla Rivelazione: rappresentano una dimensione antropologica fondamentale dell’esperienza della fede e, parimenti, della fisionomia e della configurazione interna della comunità dei credenti, così come del suo dinamismo vitale. Israele, prima di divenire un popolo unico e scelto, come ci ricordano i testi narrativi dell’Antico Testamento, era una amalgama di gruppi diversi, una moltitudine complessa. È anche per questo che il popolo eletto ha sempre considerato i suoi antenati come dei nomadi e dei migranti, definendo se stesso come straniero. Non solo, la Bibbia colloca lo straniero al cuore stesso del racconto della fondazione d’Israele. Si tratta di un approccio paradossale, perché abitualmente i racconti di fondazione ruotano intorno alla figura di un eroe e alla forza che da essa promana: non solo fisica ma anche quella dell’intelligenza o della sapienza. Caso unico al mondo, Israele al cuore della sua memoria, del suo racconto fondatore, pone l’immagine dello straniero, e attraverso lo straniero ridefinisce Dio, l’uomo, e il mondo.

Ciò nonostante, non si può ignorare il fatto che lo jus soli sia estraneo al diritto biblico. Il gher (straniero residente), pur abitando presso il popolo d’Israele, non gode di tutti i diritti dell’ebreo: per esempio, a lui non spetta alcuna parte del territorio. Questa situazione deriva, in parte, dall’auto-definizione ebraica che è prevalentemente genealogica (o, al più, prospetta l’esistenza di una aggregazione compiuta per via religiosa), non territoriale. Se nella diaspora questo approccio era necessario, le cose stanno allo stesso modo anche nello Stato che segna il ritorno a una sovranità territoriale ebraica. Naturalmente, un conto è essere ebrei e altro avere la cittadinanza israeliana, anche se i confini tra i due ambiti più volte si sono sovrapposti. Una legge come quella del ritorno (in base alla quale ogni ebreo ha il diritto di trasferirsi in Israele e di diventarne cittadino) dimostra che il “sangue” è più decisivo della “terra”.

Ritornando a quanto detto in apertura, c’è dunque una memoria da recuperare, incarnata dalla sapienza biblica nel libro del Levitico: «Tratterete lo straniero, che abita fra voi, come chi è nato fra voi; tu lo amerai come te stesso; poiché anche voi foste stranieri» (Lv 19,33-34). Il popolo ebreo è, per essenza, migrante in cerca di benessere, di pace, di futuro, comunità di stranieri e pellegrini in cammino verso una terra promessa. Il Patriarca Abramo, è definito lui stesso come «forestiero e di passaggio» (gêr e tôšab, Gn 23,4), orientato verso destinazioni nuove e mai definitive (caratteristica che conferisce alla sua storia un carattere molto originale in rapporto alla storia di Ulisse, perché la sua sarà una partenza senza ritorno “all’Itaca del cuore”).

Dio aveva dato una chiave interpretativa dell’erranza abramitica: «Darò a te e alla tua discendenza dopo di te il paese dove sei straniero, tutto il paese di Canaan in possesso perenne…» (Gn 17,8). Un “paese dove sei straniero, è un inciso inequivocabile: Israele continuerà a restare, per l’eternità, straniero nella sua terra. Perché Dio è il vero proprietario e Israele è un semplice affittuario («Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri ed inquilini»; Lv 25,23). Questa condizione contiene in germe l’atteggiamento spirituale che ritroviamo nei Salmi. L’israelita sa di avere nessun diritto davanti a Dio e desidera essere solo suo ospite («Signore, chi abiterà nella tua tenda ? Chi dimorerà sul tuo santo monte? Colui che cammina senza colpa, agisce con giustizia e parla lealmente»; Sal 15/14,1-2); Israele riconosce che è straniero in casa propria, di passaggio come tutti i suoi antenati (cfr. Sal 39/38, 13).

È a partire da questo suo statuto che il Popolo eletto codifica la norma evocata pocanzi: «Vi sarà una sola legge per il nativo e per il forestiero, che è domiciliato in mezzo a voi….» (Es 12,49). Quello che sorprende di più, in questa visione antico testamentaria, è che Yahvé, non solo ha uno sguardo benevole ed attento nei confronti della condizione del suo popolo, ma dice a Giacobbe: «Io scenderò con te in Egitto, e io certo ti farò tornare…» (Gn 46,4). I rabbini hanno sempre interpretato questo versetto in modo letterale: è Dio stesso che accompagna il suo popolo in esilio… Dio è esule con il suo Popolo. Questo tema della presenza di Dio in esilio si rinnova parzialmente nella teologia dell’incarnazione e della missione umana del Figlio: Gesù è il modello di “uscita da sé” per gli altri, quello che teologicamente chiamiamo kenosi o svuotamento, abbassamento…

Perché Dio si sarebbe fatto straniero nell’incarnazione? Per incontrare l’uomo, per accogliere gli stranieri di questo mondo nello spazio della cittadinanza divina: «Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e famigliari di Dio…» (Ef 2,19). Dunque, noi, a nostra volta, non siamo chiamati ad accogliere perché siamo buoni né perché coloro che accogliamo se lo meritino necessariamente, ma perché Dio è buono! Insomma, la Bibbia è una “scuola di xenofilia”, perché in essa, prima di tutto essere stranieri diventa simbolo della condizione umana e della condizione di Dio nel suo esodo perenne verso l’uomo. E l’uomo che accoglie l’ospite sacro è lui stesso elevato all’altezza della gratuità che è divina, non sceglie cioè di essere ospitale ma è costituito come soggetto ospitale. L’ospite che non scegli ma ti viene incontro, ti strappa al tuo ripiegamento e ti rende più umano (quest’interpretazione è al cuore del racconto di Mambre: l’accoglienza di Abramo ai tre misteriosi pellegrini raccontata in Gn 18).

Tutte le grandi religioni abramitiche, in genere, sacralizzano l’atto ospitale, esprimendo la convinzione che in esso Dio stesso manifesta qualcosa della sua presenza. Certo, per gli ebrei l’ospitalità resta una istituzione ed un dovere morale (più che uno slancio di compassione) che tutti i rabbini giudicheranno però più importante del dono stesso della Shekinah (il luogo della presenza della Gloria di Dio). La Legge obbliga, in questo modo, a venire in aiuto al povero, allo straniero, alla vedova e all’orfano. Nessuno può pretendere di servire Dio senza cominciare a servire, prima di tutto, il prossimo…

Amare il prossimo significa pagare giorno per giorno il dipendente, significa lasciare una parte della messe a disposizione degli affamati (in particolare vedove ed orfani), significa non usare due pesi e due misure nel fare giustizia per il potente e per il povero o, ancora, significa non macchiarsi di estorsioni o furti vari ai danni del prossimo. Allo stesso modo, nell’Islam, un versetto coranico molto conosciuto descrive la “vera pietà” (birr), come disponibilità a donare una parte dei propri beni a coloro che ci sono vicini, agli orfani, ai poveri e ai “figli del cammino” (ibn al-sabīl), nei quali la tradizione esegetica riconosce, generalmente, l’ospite (dayf) (cfr. s. 2,177). Questi è colui che, letteralmente, da una nuova direzione al suo cammino, orientandolo verso chi contribuirà a ridefinire come “virtuoso”, se saprà testimoniare attraverso l’accoglienza una vera pietà. In sostanza, per l’islam, la nozione alla base della pratica dell’ospitalità è quella di “protezione” o idjāra, termine che, come il corrispondente ebraico gēr, assume un significato socio-religioso associando la protezione degli uomini alla protezione divina stessa: perché il vero protettore è Dio e nessuno può accordare protezione contro il suo volere.

Tags:
Ti è piaciuto questo articolo? Condividilo!

FACEBOOK

© 2008 - 2024 | Bene Comune - Logo | Powered by MEDIAERA

Log in with your credentials

Forgot your details?