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Sono molteplici i motivi per i quali la riforma non è ulteriormente rinviabile. Per questo mi unisco al coro di chi pensa che il ricorso al voto di fiducia non crei scandali. Se poi il legislatore si fa orientare dal fatto che il mancato riconoscimento dei diritti civili a italiani resi stranieri dalla legge è causato da un assurdo ritardo legislativo, scopre persino che sta compiendo poco più che un atto di responsabilità…

La discussione sulla riforma del principio di accesso alla cittadinanza italiana comincia ad avere in Italia una lunga storia. Da troppo tempo se ne discute al punto da averla inutilmente esasperata. Per troppo tempo è rimasta ingabbiata in un gioco strumentale che al momento assegna la vittoria a nuovi e vecchi populisti che confondono i diritti e le indispensabili riforme che la storia chiede, con le proprie fortune elettorali.

Come dire che pur prendendo atto delle mutate condizioni demografiche, sociali, economiche e persino antropologiche di un Paese divenuto più compiutamente negli ultimi 20 anni Paese di immigrazione, chi ha il potere di modificare il quadro normativo, resiste ad oltranza ad una incessante domanda di allargamento del perimetro della cittadinanza. E poco gli importa se movimenti civici, forze sociali laiche e cattoliche, autorevoli personalità istituzionali e religiose, sostengono il bisogno di una nuova legge. Poco gli interessa, in un tempo assai difficile per la credibilità della politica, se ben 250mila cittadine e cittadini italiani hanno contribuito con la loro firma, attraverso la proposta di legge “l’Italia sono anch’io”, a spingere il Parlamento a modificare la legge. Tanto per la cronaca e per la storia, non sono mancati negli ultimi anni, sollecitazioni, dibattiti, convegni, assemblee, sit in e flash mob, ai quali hanno fatto seguito promesse, impegni di programma, dichiarazioni solenni che offrivano ampie rassicurazioni sul nuovo approdo legislativo.

Ora che la legislatura è in dirittura d’arrivo, non serve molto ancora per capire se vincerà il buon senso e le promesse o il cinismo politicamente miope di chi, allargando le braccia in segno di impotenza, ci rimanderà alla prossima stagione legislativa. L’impressione che ne cogliamo, dopo aver provato insieme ad altri ad animare nelle comunità un dibattito non fazioso e una semina feconda, e che se riformare il principio di acquisto della cittadinanza fosse considerato al pari di un frutto da cogliere, persa l’occasione di questa legislatura, si rischierebbe di far marcire il raccolto.

Per questo, attorno ad un argomento intrinsecamente decisivo per l’Italia, a qualche mese dallo scioglimento delle Camere, c’è solo da augurarsi l’approvazione della legge che agirebbe sostanzialmente sul solo riconoscimento del diritto di cittadinanza ai bambini e ragazzi figli di immigrati, nati e cresciuti in Italia, di fatto già italiani, ma non ancora di diritto.

Giova ricordare nell’era delle fake news e della disinformazione come arma impropria della politica, che la riforma auspicata non agirebbe sulle procedure di naturalizzazione che riguardano gli adulti, ma solo sui bambini attraverso l’introduzione del principio dello ius soli e dello ius culturae modificando così la legge 91 del 1992 che evidentemente non risponde più alle esigenze del tempo.

Da allora infatti in Italia la presenza di cittadini di origine straniera regolari ha avuto un suo progressivo sviluppo e oggi sono oltre 800mila le ragazze e i ragazzi sospesi in un limbo, in attesa che il legislatore li riconosca come membri effettivi della comunità. Questo è il nocciolo della questione che oggi viene posta al legislatore e alla politica: trovare il coraggio di aprire al futuro (e questi ragazzi lo rappresentano non solo per un fatto anagrafico) allineando l’ordinamento italiano  ad un principio già recepito da molte democrazie mondiali e europee,  o chiudere ancora una volta la porta in faccia a circa un milione di persone che non chiedono altro che la  possibilità di  vivere da cittadini nel Paese dove sono nati e cresciuti, dove studiano o lavorano. Insomma, non si tratta di un dilemma politico difficile da risolvere; piuttosto di scegliere se li riconosciamo figli di questo di Paese o li lasciamo stranieri.  Una opzione che spetta al legislatore senza se e senza ma.

Per queste semplici ragioni non è una riforma che consente ulteriori temporeggiamenti, dà poche sponde ai temporeggiatori e agevola poco quei leaders di partito che incrociano ogni ora i dati dei bookmakers del gradimento degli italiani preoccupati di volta in volta di cosa dovranno dichiarare al mattino. Saremo degli incorreggibili romantici ma abbiamo qualche ragionevole motivo per sperare, che al di là della verità sondaggistica che snocciola il suo verbo minuto per minuto, c’è una politica che ancora trova il coraggio della responsabilità delle scelte.

Sono molteplici i motivi per i quali la riforma non è ulteriormente rinviabile. Per questo mi unisco al coro di chi pensa che il ricorso al voto di fiducia al quale nella legislatura si sono già affidati i governi per oltre 80 volte, non crei scandali. Se poi il legislatore si fa orientare dal fatto che il mancato riconoscimento dei diritti civili a italiani resi stranieri dalla legge è causato da un assurdo ritardo legislativo, scopre persino che sta compiendo poco più che un atto di responsabilità. Di qui l’appello a chi può togliere il Paese da un inutile imbarazzo.

Sostenuti dalle dichiarazioni di questi ultimi mesi a favore della riforma promossi da molti patriarchi del pensiero di sinistra, moderato e liberale, si rendano protagonisti le Senatrici e i Senatori della Repubblica dell’approvazione di una legge di civiltà. Avranno il pregio di essere ricordati nella storia italiana, che certamente sarà scritta anche dalle mani di questi bambini e ragazzi, come donne e uomini di buon senso che scelsero di non affidarsi al calcolo ma al principio per il quale una legge, una riforma, è giusta se fa bene al Paese.

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