|

Ripubblichiamo l’intervista realizzata da Cristian Giorgio – apparsa il 18 ottobre 2017 su Romasette.it – allo scrittore e insegnante Eraldo Affinati, tra i primi firmatari della petizione nata all’interno del mondo della scuola per l’approvazione della legge sulla cittadinanza. Lo scrittore spiega il senso della mobilitazione.

«Noi insegnanti guardiamo negli occhi tutti i giorni gli oltre 800mila bambini e ragazzi figli di immigrati che, pur frequentando le scuole con i compagni italiani, non sono cittadini come loro. Se nati qui, dovranno attendere fino a 18 anni senza nemmeno avere la certezza di diventarci, se arrivati qui da piccoli (e sono poco meno della metà) non avranno attualmente la possibilità di godere di uguali diritti nel nostro Paese». Inizia così la lettera – appello con la quale la scuola italiana si è mobilitata raccogliendo firme per il riconoscimento dello Ius soli e Ius culturae. Venerdì scorso, 13 ottobre, in piazza Montecitorio, al “Cittadinanza day”, c’erano insegnanti, genitori e alunni. Hanno chiesto, anche in quell’occasione, una legge che dia cittadinanza a quegli oltre 800mila bambini nati o cresciuti in Italia. Lo scrittore e insegnante Eraldo Affinati, fondatore insieme alla moglie della Scuola Penny Wirton dove gratuitamente si insegna l’italiano, è stato tra i primi firmatari della petizione.

Come nasce l’appello? Lei ha parlato di una «questione di civiltà», perché?

L’appello nasce dal mondo della scuola, in particolare dal maestro Franco Lorenzoni, al quale si sono aggiunti tanti insegnanti che ogni giorno in aula, avendo di fronte bambini e ragazzi provenienti da ogni parte del mondo ma di fatto già italiani, anche se non giuridicamente, vivono sulla loro pelle una contraddizione lancinante: devono spiegare i valori della cittadinanza a chi non ce l’ha. Questa legge non farebbe altro che regolarizzare ottocentomila persone che vivono fra noi. Non dovrebbe essere una speculazione elettorale come invece purtroppo sta accadendo.”

L’Italia è un Paese razzista? Un Paese che ha paura?

Un Paese razzista spero proprio di no, anche se qualche minoranza si comporta come se lo fosse. Un Paese che ha paura sicuramente sì: si tratta di una fragilità, un’insicurezza, che non possiamo liquidare così come se niente fosse. Anzi, dobbiamo prenderla molto sul serio facendo capire a chi ci sta vicino che i tuoi valori, se sono forti e radicati, non te li può togliere nessuno: nel confronto con gli altri si rafforzano, non si indeboliscono. Se invece questi valori te li tieni chiusi in un cassetto, solo per te, basta poco per farli svanire.

“L’integrazione non si fa certo a colpi di codice”, obietteranno alcuni

Certo, se delegassimo ai codici il nostro comportamento quotidiano saremmo delle macchinette. C’è un lavoro umano da compiere: va fatto giorno per giorno, senza illuderci che saranno tutte rose e fiori.

Il riconoscimento più ampio della cittadinanza è un passo verso la presa di coscienza che le differenze altro non sono se non il sostrato di una nuova unità? Quali sono i caratteri unitari, quali i tratti che accomunano, prospetticamente, persone di diversa provenienza?

Esistono luoghi universali nei quali ci possiamo ritrovare tutti, ognuno restando se stesso: il sentimento d’amicizia, il senso di fraternità, la concezione del bene e del male, i valori di giustizia e solidarietà, la consapevolezza della finitudine, il desiderio di vivere e prosperare, il rispetto per chi non la pensa come noi. Arriva Mohamed, tu lo fissi negli occhi e gli sorridi, lui capisce subito anche se è cresciuto in un altro mondo; se invece lo guardi in cagnesco cosa puoi pretendere da lui? Io, da educatore, ho fiducia negli adolescenti, i quali hanno una possibilità d’intesa istintiva che noi adulti dobbiamo favorire.

Parliamo della sua esperienza nella scuola Penny Wirton. Ha avuto modo di parlare con i suoi ragazzi di questa questione? Cosa ne pensano e come reagiscono alle notizie di questi giorni?

Alla scuola Penny Wirton, che a Roma riprenderà le sue lezioni nei prossimi giorni a Casal Bertone – in via De Dominicis, presso l’ostello universitario, nei locali messi a disposizione da Laziodisu -, l’incontro fra ragazzi italiani e ragazzi immigrati è quotidiano, uno a uno, senza classi, senza voti, senza burocrazie e senza soldi. I nostri scolari sono spesso appena arrivati, ti guardano frastornati, non sanno bene se resteranno in Italia oppure no. Altri sentono l’inquietudine e l’ansia dell’esule. Sono piante staccate dal fusto pronte ad attecchire altrove. Hanno bisogno di noi. E noi abbiamo bisogno di loro.

L’intervista è stata presa da Romasette.it

Tags:
Ti è piaciuto questo articolo? Condividilo!

FACEBOOK

© 2008 - 2024 | Bene Comune - Logo | Powered by MEDIAERA

Log in with your credentials

Forgot your details?