Uno dei limiti maggiori della politica – ancor più di quella italiana – è di essere schiacciata sul presente, di ragionare con un orizzonte temporale troppo limitato, che tende a non andare oltre la successiva tornata elettorale.  Il fatto che l’attuale Governo abbia retto tutto sommato bene alla prova delle elezioni regionali e si trovi ora davanti tre anni di lavoro senza l’assillo del voto, costituisce un’occasione preziosa per attuare le riforme importanti che mancano. Sempre che la politica politicante – quella che si parla addosso senza occuparsi delle reali necessità del paese – non abbia ancora una volta il sopravvento.

Qualche rischio già si intravede. Eppure, i segnali di insofferenza dei cittadini non mancano. La bassa fiducia degli italiani sui partiti e sulla classe dirigente in generale è ripetutamente messa in evidenza da vari sondaggi sul tema, ma anche in parte confermata dalla crescente astensione elettorale.
Uno principali dei motivi dell’insoddisfazione crescente dei cittadini è il fatto che le famiglie sono state a lungo abbandonate a se stesse. Sono stati incentivati più i comportamenti opportunistici che le scelte virtuose. Non a caso, come recentemente ricordato dal Governatore della Banca d’Italia, il nostro paese è stato meno in grado negli ultimi quindici anni di creare ricchezza rispetto al resto d’Europa.
A trovarsi ancor più penalizzate sono state le coppie con figli, verso le quali lo Stato italiano prende di più e offre di meno rispetto a quanto avviene altrove. Prende di più perché il nostro sistema fiscale non tiene adeguatamente conto dei minori a carico nel computo delle imposte. Di conseguenza chi si assume responsabilità familiari si trova soggetto ad un’aggravio relativamente maggiore rispetto a quanto accade in gran parte del mondo sviluppato. Proprio per rispondere a tale squilibrio l’attuale Governo, ispirandosi al modello francese, aveva messo nel suo programma elettorale l’adozione del “quoziente familiare”. La promessa di intervenire in tale direzione è stata recentemente ribadita. Ci auguriamo che finalmente si passi all’azione, prevedendo anche opportuni correttivi in modo che il nuovo sistema non disincentivi troppo l’occupazione femminile e non favorisca i redditi più elevati. Altre strade sono comunque percorribili, con obiettivi analoghi. Si pensi ad esempio alla proposta di istituire una dote fiscale per ogni figlio minore a carico che inglobi gli assegni al nucleo familiare e le detrazioni Irpef. O all’idea, che trova molto seguito tra le associazioni familiari, di prevedere un imposizione fiscale sul “reddito disponibile”, ottenuto dal totale scorporando le spese irrinunciabili per il mantenimento dei figli.
L’assenza di misure di questo tipo espone maggiormente a rischio di ridurre sensibilmente il benessere economico delle coppie con figli, in un paese che già si distingue per una fecondità molto bassa. Non a caso il nostro è uno degli stati sviluppati con rischio di povertà più elevato per le coppie che vanno oltre il secondo figlio: il tasso italiano è del 70% più elevato rispetto alla media europea (dati EU-SILC riferiti al 2005). Inoltre, secondo i dati Istat, il 17% dei minori vive in contesti caratterizzati da forte deprivazione materiale. Questi bambini rischiano di trovarsi con uno svantaggio iniziale difficilmente colmabile,  in termini di opportunità di formazione e di valorizzazione dei talenti individuali. Come dimostrato da molti studi, proprio per le carenze del sistema del welfare pubblico, l’Italia risulta infatti essere uno dei paesi nei quali contano di più le risorse della famiglia di origine sul destino sociale dei singoli. Le ricerche del premio Nobel James Heckman evidenziano come le risorse pubbliche destinate alla riduzione degli svantaggi nelle prime fasi di vita non consentono solo di costruire un sistema più equo, ma si rivelano anche un investimento particolarmente solido in termini di produttività e sicurezza per le società avanzate.
A mettere in corrispondenza carenza di politiche sociali e rischio di povertà è anche il nodo della conciliazione tra lavoro e famiglia. Se da un lato, come abbiamo detto, in Italia lo Stato prende relativamente di più dalle famiglie, dall’altro fornisce meno servizi in loro favore. Ancora molto bassa è, ad esempio, l’offerta di asili nido. Di conseguenza, molto più facilmente che altrove, le donne con figli si trovano a dover rinunciare al lavoro e quindi ad un reddito in più proprio quando i costi aumentano con l’allargamento della famiglia.
Non a caso, nei paesi che hanno investito in misure di conciliazione (non solo asili nido, ma anche part-time, congedi di paternità, ecc.) si osservano, tendenzialmente, anche più elevati livelli sia di fecondità che di partecipazione femminile al mercato del lavoro. E questo risulta sempre più vero anche all’interno del territorio italiano, tanto che la fecondità è aumentata di più, anche la netto dell’immigrazione, dove maggiori sono sia l’occupazione femminile che le possibilità di conciliazione. Eclatante è il caso del Mezzogiorno, una delle aree tradizionalmente più prolifiche dell’Europa occidentale che sta diventando ora una della aree più depresse, non più solo dal punto di vista economico ma anche demografico.
Che la politica italiana si sia occupata di famiglia molto a parole ma poco nei fatti è ben riassunto da quanto poco la spesa sociale destini a tale voce. Si tratta di poco più dell’1% del Pil, quasi la metà rispetto alla media europea.
Nonostante l’evidenza di questi dati, che ben documentano le condizioni più svantaggiate e problematiche di chi decide di far figli in Italia rispetto alla gran parte degli altri paesi sviluppati, c’è ancora chi accusa le donne italiane di rinunciare alla maternità o di fermarsi al figlio unico perché troppo egoiste. L’ampio divario tra numero di figli desiderati (oltre due) e quelli effettivamente realizzati (meno di uno e mezzo) va letto invece come una latente domanda di politiche familiari. Nella stessa direzione va il confronto tra la depressa situazione italiana e quella più felice di altri paesi, come la Francia, che da tempo e in modo più deciso e convincente sostengono le scelte familiari e favoriscono la conciliazione.
Non che i motivi culturali non contino, anzi, ma prima di attribuire solo ad essi la principale responsabilità della persistente bassa fecondità italiana andrebbero rimossi gli ostacoli che le coppie nel nostro paese, più che altrove, trovano sul cammino della realizzazione dei loro desideri riproduttivi.
La decisione di fare un figlio è un atto di fiducia nei confronti della società a cui si appartiene e del suo futuro. La mancanza di politiche adeguate tradisce tale fiducia, disincentiva l’assunzione di responsabilità familiari e ne depotenzia il valore. Diventa un facile alibi quello poi di accusare le coppie italiane di essere deresponsabilizzate e senza valori.

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