Il quadro delineato dall’ultimo Rapporto Cisf 2009* evidenzia una situazione critica delle famiglie italiane che oggi più che mai in tempo di crisi fanno fatica a garantire il ricambio generazionale e, di conseguenza, a garantire una prospettiva di crescita (non solo economica) per il nostro Paese. Quale è la situazione oggi? Il 53,4% delle famiglie in Italia (24 milioni circa) non ha figli. Solo una minoranza di famiglie ha almeno un figlio. Dobbiamo prendere atto di una situazione abbastanza drammatica, nel senso che abbiamo a che fare con una popolazione assai anziana e in gran parte destinata a non avere figli.

Solo in questi ultimi anni sono affiorati deboli segnali di ripresa, ascrivibili sia al crescente contributo delle donne immigrate, sia al parziale recupero delle italiane ultra trentacinquenni (talvolta anche ultra quarantenni) alla ricerca della loro prima esperienza di maternità. Secondo i dati più recenti il tasso di fecondità totale è attualmente pari a 1,41 e deriva dalla media tra 1,33 figli per donna relativi alla popolazione italiana e 2,12 attribuiti alla componente straniera.

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Ma possibile che, con questi numeri, non si riesca a fare di più per sostenere le famiglie che hanno dei figli o che ne desiderano uno in più?
Un dato da considerare attentamente è lo scarto fra il numero medio dei figli avuti dagli intervistati, pari a 1,71, e il numero medio dei figli desiderati, pari a 2,13. Quali sono le cause di così pochi figli? Possiamo dire, in breve, che si tratta di motivi psicologici legati al senso di incertezza e di rischio sul futuro, così come a fattori culturali inerenti alle difficoltà di impegnarsi.
Le famiglie si trovano a dover gestire una serie di sfide per affrontare la transizione alla genitorialità, fino al suo compimento naturale, ovvero (almeno) fino alla maggiore età dei figli. Si tratta essenzialmente della sfida della cura, che richiede alla famiglia di mettere in campo diverse risorse, di cui essa può disporre solo se l’intero contesto sociale a cui appartiene (reti primarie e secondarie, mercato del lavoro, servizi pubblici e privati, agenzie educative in senso lato) ne facilita la disponibilità. Tali risorse ruotano attorno a tre nodi fondamentali: una disponibilità economica sufficiente a garantire l’incremento delle spese che una famiglia deve sostenere con l’arrivo dei figli; il tempo su cui i genitori possono contare per occuparsi direttamente della cura;
la presenza di una rete di servizi che possano affiancare la famiglia nel compito di cura.
 
Ma quanto costano i figli?
 
Sono in particolare definiti e misurati il costo di mantenimento (spesa per i soli beni necessari, quali casa, vitto, vestiario), il costo di accrescimento, che misura l’esborso reale per i figli, il costo totale di accrescimento, dato dal costo di accrescimento più il valore del tempo dedicato alla cura dei figli, che raramente i genitori conteggiano esplicitamente, ma che sicuramente viene “valutato” per decidere se fare un figlio o meno.
La spesa media mensile per i figli a carico è il 35,3% della spesa familiare totale. Il costo mensile di mantenimento del bambino (i soli beni indispensabili) in termini assoluti per la classe di età 0-5 anni è uguale a 317 euro e corrisponde ad un costo di mantenimento per figlio di circa 3.800 euro annui. In media il costo di accrescimento di un figlio (che comprende il costo di mantenimento) è di 798 euro al mese. In media le famiglie benestanti spendono per i figli circa l’83% in più delle famiglie povere”. Siamo oltre i 9.000 euro annui di costo di accrescimento per il figlio.
 
Il tema dell’equità fiscale verso la famiglia riguarda il fatto che la famiglia sostiene i costi della riproduzione della popolazione, ossia del ricambio fra le generazioni, e dovrebbe essere riconosciuta in questo suo ruolo sociale. Lo Stato italiano negli ultimi anni ha penalizzato la famiglia che ha figli. Basti guardare i dati sulla spesa sociale a favore della famiglia: il confronto con gli altri Paesi europei evidenzia un chiaro scarto a sfavore dell’Italia (che nel 2005 spendeva per la funzione famiglia e bambini l’1,1% del Pil, rispetto al 2,5 della Francia e il 3,2 della Germania).
I figli rappresentano un “bene” non nel ristretto senso tradizionale dell’analisi economica, né sul piano privato né su quello pubblico, anche se è vero che una equilibrata struttura demografica produce benefici generalizzati per tutti. Piuttosto, i figli sono anzitutto la realizzazione di un “buon” progetto condiviso di vita familiare, cioè un “bene comune” sia nel senso della sua natura duale, pubblica e privata, che nel suo significato valutativo e soprattutto intenzionale, poiché un figlio è, di regola, il desiderio di una nuova vita.
Il beneficio sociale dei figli non può essere circoscritto alla sola sfera privata: la questione della natalità e dei figli investe la continuità e il futuro di una comunità sociale, come accade per qualunque realistica prospettiva di sviluppo sostenibile per il futuro dell’Italia.
Ma il loro costo è in gran parte la responsabilità privata delle famiglie, anziché essere una condivisione sociale: di conseguenza il costo privato sostenuto dalle famiglie è troppo elevato e il “bene comune” del futuro rappresentato dai figli costituisce un rischio economico distribuito in modo non equo, né coerente con l’obiettivo di uno sviluppo sostenibile e di una popolazione stabile.
Ipotizzare un nuovo welfare per i figli significa impostare le politiche pubbliche avendo un concetto relazionale, cioè generativo, delle nuove generazioni. Urge una politica – non solo delle istituzioni pubbliche, ma anche di quelle private – che sia orientata ai figli. Tutta la società, non solo lo Stato, deve farsi carico di un equilibrato ricambio generazionale, che includa gli immigrati, e sia generativo delle nuove generazioni.
Il criterio fondamentale di questa svolta, che parte dal basso anziché dalle élites politiche (anzi molto spesso contro le élites politiche e i loro compromessi con le forze del capitalismo mercantile), sta nel sostenere le relazioni familiari e la soggettività sociale della famiglia come tale nella cura dei figli, anziché nel sollevare gli individui dalle responsabilità verso i figli.
Demercificare il welfare dei figli’ vuol dire intendere il nuovo welfare in termini ‘relazionali’; valorizzare le relazioni di cura e di sostegno dei figli in alternativa all’assetto dell’individualismo istituzionalizzato di tipo acquisitivo che punta a migliorare le condizioni (prestazioni) materiali a scapito delle relazioni umane. Le politiche sociali relazionali nascono quindi da una nuova visione culturale della posizione dei figli nella società e contribuiscono a creare una nuova cultura dell’infanzia e dei giovani.
 
* P. Donati (a cura di), Il costo dei figli: quale welfare per le famiglie?, Rapporto Cisf, FrancoAngeli, Milano, 2009.
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