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Il Sud Italia sta scivolando sempre più giù. L’Economist, in una sua recente copertina, si è divertito a tracciare una nuova mappa degli stati europei. Il nostro è l’unico ad essere stato diviso in due parti, con il Sud staccato e fatto rientrare in un’area chiamata “Bordello” contenente anche la Grecia. Il messaggio è chiaro: l’Italia settentrionale e meridionale appaiono più diverse e lontane rispetto a quanto la geografia e i confini politici rivelino.

Molti sono, del resto, gli indicatori che testimoniano il grado di cronicizzazione del divario tra tali due aree. Non solo non si intravedono segnali di convergenza in atto, ma negli ultimi anni la situazione è, se possibile, peggiorata. Nel suo ultimo rapporto lo Svimez fa notare come nel periodo 2000-2008 il Mezzogiorno sia cresciuto la metà rispetto al resto del Paese: “dal dopoguerra non si era mai verificata una così lunga interruzione del processo di crescita tra le due aree”. In un editoriale apparso lo scorso venerdì 24 settembre sul Corriere del Mezzogiorno, Geo Nocchetti scrive: “Che altro deve succedere perché qualcuno, anche se non si capisce chi possa essere, si alzi e con autorità dica: fermi tutti, dobbiamo guardarci negli occhi, riflettere, rifondarci, purificarci? Non è bastato che il cardinal Sepe, un religioso che ‘per contratto’ deve credere nella speranza, abbia detto che Napoli ha perso pane e speranza”. Senza pane e speranza che possono fare i giovani? Rassegnarsi o andarsene. Ed è infatti quanto sta accadendo.

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Nelle società tardo moderne, nelle aree mal governate e incapaci di crescere, non si fanno figli e chi non si rassegna a rivedere al ribasso i propri progetti di vita, se ne va in cerca di migliori prospettive. Non a caso, tra le novità prodottesi a cavallo tra il vecchio il nuovo secolo c’è sia la caduta delle nascite nel Mezzogiorno, che l’emigrazione verso Nord dei giovani più preparati e qualificati. Negli ultimi anni, infatti, non solo il Sud è cresciuto economicamente di meno rispetto al resto d’Italia, ma anche la fecondità è cresciuta di meno, anzi è diminuita. Dagli anni Novanta ad oggi si è progressivamente annullato il tradizionale vantaggio demografico meridionale. Tanto che ora, in valore assoluto nascono più bambini al Nord (anche al netto delle nascite straniere). Il dato Istat del 2008 indica un numero medio di figli per donna pari a 1,35 nel Mezzogiorno e a 1,46 nell’area settentrionale.
Anche relativamente al fenomeno della protratta permanenza dei giovani nella casa dei genitori si è assistito recentemente ad un inedito sorpasso. Per tutto il XX secolo a rimanere maggiormente a vivere con i genitori sono stati, infatti, i giovani delle regioni centro-settentrionali e sui motivi di permanenza dominavano i fattori culturali. Negli ultimi quindici anni è invece cresciuto sensibilmente il peso dei motivi economici, ed in particolare delle difficoltà legate alla carenza di un lavoro stabile e di un reddito adeguato e continuativo. Da questo punto di vista, a peggiorare è stata soprattutto la situazione del Mezzogiorno. I più aggiornati dati Istat riferiti al 2008 evidenziano poi come, nella fascia d’età 25-34, la percentuale di persone che vivono con i genitori sia inferiore al 40% in quasi tutte le regioni del Nord e oltre il 50% in quasi tutte quelle del Sud. Gli occupati, tra chi vive ancora nella famiglia di origine, sono il 63% nell’area settentrionale e meno del 40% nel Mezzogiorno.
 
Un giovane meridionale alla fine del periodo formativo si trova, quindi, sempre di più davanti alla prospettiva di una lunga dipendenza a carico della famiglia di origine. L’alternativa è spostarsi appena possibile verso Nord, magari anche durante gli studi, in cerca di migliori opportunità. Come documentano, infatti, i dati Istat e le elaborazione dello Svimez, l’incapacità di offrire adeguate opportunità a chi, concluso il periodo di formazione, si affaccia nel mercato del lavoro, spinge sempre più giovani a cercare migliori prospettive lontano dal luogo di origine. La rilevanza del fenomeno non sta solo nell’entità dei flussi, ma anche nella loro qualità: assai più che negli anni Sessanta e Settanta i flussi nella direttrice Sud-Nord riguardano giovani con titolo medio-alto e alte performance scolastiche.
Alla base della ripresa della mobilità per lavoro stanno probabilmente, per riprendere i termini usati dal Cardinale Sepe, sia le carenze di “pane” che di “speranza”. Oltre al cronicizzarsi del divario in termini di opportunità occupazionali tra Nord e Sud, si registra, infatti, anche un deterioramento della credibilità della classe dirigente e della fiducia sulle possibilità di crescita e sviluppo dell’economia del Mezzogiorno.
 
Nord e Sud sono gambe entrambe necessarie all’Italia per camminare. Una delle due però non funziona come dovrebbe e potrebbe. Di conseguenza l’Italia arranca, è sempre in affanno e fatica a mantenere il passo delle altre grandi economie. Che fare? Amputare la gamba, come indica provocatoriamente la copertina dell’Economist? Diventare un Paese storpio non è certo la soluzione migliore. Sarebbe solo la conferma della nostra incapacità di valorizzare risorse e potenzialità che comunque ci sono. Bisogna allora sanarla cercando la cura adatta. Per farlo bisogna stimolare e sostenere le potenzialità intrinseche di rivitalizzazione, rappresentate dalle energie sane, dalle intelligenze fresche e dalla voglia di riscatto delle nuove generazioni. Il capitale umano dei giovani è la risorsa più importante per il cambiamento e lo sviluppo. Da qui bisogna ripartire: da una politica che, attraverso un progetto solido e convincente di investimento sulla qualità e le opportunità delle nuove generazioni, recuperi la loro fiducia e riaccenda, in tutti, la speranza in un futuro che abbia davvero una chance di essere migliore del presente.
 
 
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