Tommaso d’Aquino suggerisce di pensare alla giustizia anzitutto come una forma di restituzione: giustizia è restituire agli altri ciò che spetta loro. Noi siamo spesso portati ad interpretare questo invito pensando alla restituzione dei beni, ma possiamo immaginare anche una prospettiva più schiettamente antropologica. All’altro devo restituire ciò che gli spetta ancor prima dei beni, cioè la sua identità. Significa che giusto è anzitutto chi è disponibile a riconosce le persone nella loro verità, a fare i conti con tutto ciò che sono, e non soltanto con aspetti più o meno graditi – o vagheggiati – della loro personalità.

È interessante osservare che anche San Paolo, nel celebre Inno alla carità di 1 Ef 13, invita in fondo ad una «operazione-verità» di questo tipo, mettendo però al centro dell’attenzione non tanto il rapporto con gli altri e con la loro identità, quanto il rapporto con noi stessi e con la verità a proposito del desiderio di vita che ci attraversa e ci mobilita.rn

Come sappiamo, dopo aver elencato una lunga serie di annotazioni a proposito di ciò che contrasta con la carità, l’Apostolo annota conclusivamente che quest’ultima «non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità». Della verità si compiace, non della giustizia. All’opposto dell’ingiustizia c’è dunque la verità, non la giustizia. Si parla di giustizia ma si chiamano in causa la verità e la conoscenza. Ciò ha reso questo discorso da sempre affascinante per i commentatori. Possiamo cogliere qualche aspetto del rapporto carità-giustizia-verità annotando le figure di coppia suggerite subito dopo: bambino-uomo, parlare da bambino-parlare da uomo, conoscenza imperfetta-conoscenza perfetta. Se le consideriamo dal punto di vista antropologico noteremo che si tratta di coppie che esprimono il cammino dell’uomo (da- a-), un cammino che la tradizione cristiana unanimemente interpreta come direzionato dalla morte alla vita, dalle tenebre alla luce, e quindi dalla ignoranza alla conoscenza.

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Ma di quale ignoranza si parla?

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Per Tommaso d’Aquino la più importante notizia per l’uomo è e rimane quella di essere chiamato ad una vita felice non più insidiata dalla morte. Gli autori ortodossi hanno riflettuto volentieri sulla prospettiva della divinoumanità anticipata in Cristo e offerta ad ogni uomo. Con la tradizione del pensiero cristiano antico possiamo dire allora che la conoscenza o l’ignoranza di cui si parla riguardano la salvezza e la vita che sono offerte a ciascuna persona. Ora, l’uomo che conosce la verità su se stesso è colui che anzitutto si mette finalmente in ascolto del proprio profondo desiderio di vita, decifrandolo come un desiderio di vita felice e duratura. Ma più ancora, ad esempio secondo Gregorio di Nissa, la persona che scopre la verità su se stessa è quella che riconosce di non poter avere la vita duratura che cerca da nessuna cosa di questo mondo, ma soltanto dal Dio vivente: «Chi si mette alle dipendenze di un essere creato – ci ricorda – ripone inconsapevolmente in esso e non nella divinità la speranza della salvezza» (Or. cath. magna, XXXIX, 6).

Questa «operazione-verità» su di sé, sul proprio desiderio intimo e sulla sua soddisfazione, porta l’uomo a leggere la propria storia come una storia di salvezza: la persona impara a riconoscere in tutto l’intima presenza di Dio, e sperimenta che la vita viene dall’essere nella Memoria di Dio, in relazione interiore con lo Spirito di Dio che abita le profondità di ogni uomo legandolo al Padre, come insegna San Basilio. Viceversa, l’uomo che ancora non vede è colui che continua a ritenere che saranno le cose, le relazioni, le situazioni, i ruoli a dargli la vita e la felicità che cerca. E san Paolo ha gioco facile nel proporci un certo repertorio di atteggiamenti tipici della persona che non si è ancora consegnata all’amore, perché ancora ritiene che la vita non venga da lì, ma dalle realtà a cui pian piano questa si è legata e che le danno sicurezza. È il profilo della persona avara e sospettosa, quasi costretta a riconoscere negli altri un’insidia alla propria vita. Ed è chiaro che sia così: se la vita coincide con realtà che possono essere portate via, comprensibilmente si diventa gelosi e avari; chi insidia le nostre cose – i nostri averi, i nostri ruoli, i nostri progetti – insidia il cuore della nostra vita. Ecco allora che il repertorio proposto da san Paolo vale quasi come una sintomatologia dell’essere legati ad una realtà che non può dare la vita che cerchiamo: l’invidia, la ricerca del proprio interesse, la boria, la mancanza di rispetto per gli altri, il rancore, il gusto per le altrui difficoltà… Quindi solo l’uomo che conosce la verità su se stesso, cioè che scopre che è l’amore di Dio la garanzia per la sua vita e non le realtà mondane a cui può essersi legato, diventa capace di giustizia. Diventa cioè progressivamente capace di slegarsi dalle cose e di esserne libero. In fondo l’avaro è – come spiegava Evagrio – la persona schiava di un piccolo dio di cui si è messo alle dipendenze, pensando che questo potesse dispensare vita, mentre in realtà finisce per consumarla.

Allora anche il rapporto tra carità, giustizia e verità diventa interessante da un punto di vista antropologico: la giustizia non è anzitutto il frutto dell’impegno dell’uomo ad essere più equanime e a mettere a disposizione parte di ciò che possiede. La giustizia è in primo luogo il germoglio nuovo nella vita della persona liberata dalle schiavitù, della persona che ha scoperto la verità su se stessa: che si è scoperta custodita dall’amore di Dio e non assicurata dai beni mondani. La giustizia è il punto di vista della persona libera, che inizia o prosegue nel tirocinio della libertà dalla dipendenza dai piccoli dei: la carità come attenzione all’altro non è una nobile e audace performance volontaristica, ma è anzitutto il frutto del sapersi al sicuro nelle mani del Deus che è Caritas.

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