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Molti cittadini italiani hanno capito che il tempo della delega è finito e hanno quindi deciso, in maniera del tutto autonoma, di assumersi la responsabilità della cura dei beni comuni materiali e immateriali dei luoghi in cui vivono…

La Costituzione come bussola
Non basta dire, come fa l’art. 118 ultimo comma della Costituzione, che i poteri pubblici “favoriscono le autonome iniziative dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale”. E’ un’affermazione rivoluzionaria perché significa riconoscere che quando i cittadini si attivano non sono utenti o amministrati, secondo le categorie del Diritto amministrativo ottocentesco, bensì soggetti responsabili e solidali che in piena autonomia collaborano con l’amministrazione nel perseguimento dell’interesse generale o, detto in altro modo, nella cura dei beni comuni.
Ma riconoscere in Costituzione il passaggio dei cittadini da amministrati ad alleati non basta, se poi invece le leggi ed i regolamenti continuano a considerarli come amministrati. La Costituzione è la bussola per orientarsi, ma per governare la barca ci vuole il timone, ci vogliono cioè leggi e regolamenti che applichino i principi costituzionali, altrimenti essi restano lettera morta, come è successo appunto alla sussidiarietà negli ultimi 15 anni.

Un regolamento comunale per dar vita alla Costituzione
Da quando nel 2001 il principio di sussidiarietà è entrato in Costituzione, pur volendo i cittadini applicarlo per prendersi cura dei beni comuni del proprio territorio, gli amministratori locali non glielo hanno consentito, temendo di assumersi responsabilità e di incorrere in sanzioni. Ecco perché, con l’aiuto convinto dell’amministrazione del Comune di Bologna, abbiamo tradotto l’ultimo comma dell’art. 118 della Costituzione in un regolamento comunale. (…) Dal punto di vista strettamente tecnico-giuridico la scelta, in assenza di leggi in materia, di dare attuazione con un regolamento comunale ad un principio costituzionale potrebbe sembrare azzardata. Ma come dimostra l’esperienza di questi due anni è stata invece una scelta vincente, per vari motivi. Innanzitutto, al contrario di quella legislativa la procedura per l’approvazione di un regolamento comunale è semplice e rapida. Inoltre in questo modo ciascuno degli 8.057 comuni italiani può, se vuole, adattare il nostro regolamento-tipo alla propria realtà e questa grande varietà di situazioni porterà certamente a miglioramenti del testo. (…)

Il ruolo essenziale dei patti di collaborazione
Un’altra scelta è stata cruciale, quella di prevedere che “La collaborazione tra cittadini e amministrazione si estrinseca nell’adozione di atti amministrativi di natura non autoritativa” (art. 1, comma 3 del Regolamento) detti “patti di collaborazione”. Sono disciplinati dettagliatamente dall’art. 5 e sono “lo strumento con cui Comune e cittadini attivi concordano tutto ciò che è necessario ai fini della realizzazione degli interventi di cura e rigenerazione dei beni comuni”. In sostanza, i patti di collaborazione sono lo snodo tecnico-giuridico su cui si fonda quella alleanza fra cittadini e amministrazione che dà vita all’amministrazione condivisa. Non per supplire con l’intervento dei cittadini a deficienze delle amministrazioni bensì per affrontare meglio, insieme, la complessità delle sfide che il mondo attuale pone a tutti, amministrazioni pubbliche e cittadini.

Non ci sono più alibi
Spesso in questi anni gli amministratori locali si sono opposti al coinvolgimento dei cittadini nella cura dei beni comuni perché mancando disposizioni legislative o regolamentari temevano l’assunzione di responsabilità derivanti dall’attuazione del principio costituzionale di sussidiarietà. Grazie al Regolamento quel vuoto normativo non c’è più e neppure l’alibi per tutti coloro che preferiscono che i cittadini non siano attivi e responsabili ma continuino ad essere semplici amministrati. Soprattutto, non c’è più l’ostacolo che, impedendo ai cittadini di assumersi la responsabilità della cura dei beni comuni urbani, non consentiva di liberare nell’interesse generale le infinite energie presenti nelle nostre comunità locali.

“Un popolo che si sente comunità”
Il Regolamento è soltanto il mezzo per raggiungere un obiettivo molto più grande e ambizioso, quello individuato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso di insediamento alle Camere il 3 febbraio 2015, quando disse che “Parlare di unità nazionale significa ridare al Paese un orizzonte di speranza” ma “Perché questa speranza non rimanga un’evocazione astratta, occorre ricostruire quei legami che tengono insieme la società”.

Ricostruire il Paese
Noi proponiamo infatti di dar vita in tutte le città italiane, grandi e piccole, a comunità create condividendo attività di cura dei beni comuni, materiali e immateriali, presenti sul territorio, sulla base del principio di sussidiarietà. Si tratterebbe di ricostruire il Paese come nel dopoguerra, ma non investendo sulla produzione e sul consumo di beni privati come negli anni del boom economico, bensì soprattutto sulla cura e lo sviluppo dei beni comuni materiali e immateriali. Questa ricostruzione è già in atto, migliaia di cittadini attivi si stanno già prendendo cura dei beni comuni presenti sul proprio territorio, ma senza la consapevolezza che le loro singole, spesso piccole ed isolate iniziative potrebbero far parte di un più ampio movimento di ricostruzione materiale e morale.
Ricostruzione materiale, in quanto le attività di cura dei beni comuni svolte dai cittadini attivi contribuiscono in maniera significativa al miglioramento della qualità della vita di tutti i membri della comunità. Ma anche ricostruzione morale, perché in un Paese governato da oligarchie spesso incompetenti e corrotte, il fatto che i cittadini si prendano cura dei beni di tutti con la stessa attenzione che riservano ai propri dimostra come nella società civile ci siano ancora senso di responsabilità e di appartenenza, solidarietà e capacità di iniziativa.

Produrre capitale sociale, dare fiducia
Non è un caso se comune (da cui comunità) viene dal latino cum + munus, che vuol dire svolgere un compito insieme. Perché la comunità si costruisce appunto svolgendo insieme un compito condiviso, si “fa comunità” lavorando insieme per un obiettivo che ci si è dati autonomamente. Per questo, quando dei cittadini si prendono cura degli spazi del proprio quartiere, quello che si vede sono delle persone che fanno la manutenzione di una piazza, un giardino, una scuola, etc. Ma in realtà quelle persone stanno facendo qualcosa di molto più importante, cioè stanno rafforzando i legami che tengono insieme la loro comunità e producendo capitale sociale. Il loro comportamento comunica che è possibile avere fiducia nel prossimo.

Un altro modo di guardare alle persone
Tutto ciò dimostra che le risorse per curare e sviluppare i beni comuni del nostro Paese ci sono, ma continuano ad essere ignorate perché per farle emergere è necessario considerare le persone come portatrici non soltanto di bisogni, ma anche di capacità.
Se accettiamo questa “antropologia positiva” e promuoviamo la costruzione di comunità aggregate attorno ad attività di cura dei beni comuni possiamo affrontare la crisi valorizzando nell’interesse generale le infinite risorse di intelligenza, creatività e capacità di lavoro di cui siamo dotati noi italiani, liberando energie che, come ha osservato anche il Presidente della Repubblica, sono lì, pronte per entrare in gioco. Le nostre ma anche quelle di coloro che formalmente non sono cittadini italiani, cioè gli stranieri che vivono e lavorano nel nostro Paese e che prendendosi cura dei “nostri” beni comuni si sentirebbero veramente cittadini, in senso sostanziale. (…)

Difendere la democrazia e il benessere
Creare comunità grazie alla cura condivisa dei beni comuni è il miglior modo per essere cittadini ed è indispensabile sia per difendere la democrazia, sia il nostro benessere materiale.
La crisi infatti, impoverendo vaste aree della popolazione e creando incertezza per il futuro, alimenta il disprezzo per le istituzioni e le regole della democrazia rappresentativa, considerata non più in grado di dare risposte ai bisogni ed alle paure della società. Ai guasti provocati al tessuto democratico dalla crisi si aggiungono ora anche gli attacchi alla nostra stessa convivenza civile ed ai nostri valori da parte di criminali ideologizzati, che cercano di insinuare fra di noi la paura, il sospetto e la diffidenza reciproca. Tanto più, dunque, oggi è cruciale rivitalizzare il senso di appartenenza alla comunità attraverso esperienze concrete di partecipazione alla vita pubblica, come la cura condivisa dei beni comuni. (…)

Un cambiamento culturale profondo
Il Regolamento per l’amministrazione condivisa è una piccola cosa, rispetto ai problemi del Paese. Ma a volte sono le piccole cose che fanno la differenza, se sono in sintonia con i grandi cambiamenti nel modo di pensare di tante persone. E il Regolamento evidentemente è in sintonia con un cambiamento culturale profondo, che al momento riguarda una minoranza di cittadini, ma che potrebbe in tempi relativamente brevi diventare un fenomeno molto più ampio, liberando le infinite preziosissime energie nascoste nelle nostre comunità.
Un altro strumento fondamentale per la diffusione dell’amministrazione condivisa sarà, nei prossimi anni, la Scuola Italiana dei Beni Comuni che Labsus ha fondato insieme con l’Università di Trento ed Euricse. Il suo scopo è formare due nuove tipologie di professionisti: funzionari comunali capaci di interagire con i cittadini attivi facilitandone le autonome iniziative per la cura dei beni comuni; persone capaci di gestire il recupero e la gestione, in maniera economicamente sostenibile, di beni pubblici abbandonati di una comunità si assume la responsabilità riconoscendoli come beni comuni.

Sovrani e responsabili, non supplenti
Molti italiani hanno capito che “Il tempo della delega è finito” e hanno quindi deciso, in maniera del tutto autonoma, di assumersi la responsabilità della cura dei beni comuni materiali e immateriali dei luoghi in cui vivono. L’altro aspetto fondamentale di questo cambiamento culturale sta nell’attivarsi autonomo di persone che non si sentono né si comportano come supplenti che rimediano ad inefficienze dell’amministrazione pubblica, ma come cittadini che si riappropriano di ciò che è loro.

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