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Il patrimonio territoriale è una delle coniugazioni del patrimonio culturale. E ‘ un potente medio di educazione alla cittadinanza e di innalzamento umano che non deve essere ridotto alla servitù turistica e al consumo intellettuale da spettacolo

Abitanti
Uomini e donne vengono al mondo. E poi si sta al mondo vivendo esistenze che si coniugano secondo spazio e tempo. Per il tramite del suo corpo, vivere è sempre, per l’essere umano, essere allocato da qualche parte, è essere presso altri esseri umani e presso le cose del mondo, ancor prima che con il pensiero riesca a riflettere su di essi e sul modo in cui a essi si relaziona. La vita umana è un’esistenza temporale e temporalizzante, spaziale e spazializzante: proprio perché è vita di una coscienza corporea, ovvero di un corpo cosciente, che nel tempo e avendo una certa "presa" sullo spazio percepisce, pensa, sente, agisce. Vivere è perciò un incessante orientarsi, localizzarsi, mentre ci si relaziona agli altri e si relazionano gli altri a sé. Allo spazio e al tempo si inerisce, ci si applica ad essi e li si abbraccia: gli esseri umani hanno così con il mondo una familiarità che è più antica del pensiero, come insegna Maurice Merleau-Ponty (2003). Si deve dire, perciò, che il modo di stare al mondo degli esseri umani è propriamente un abitare (Melchiorre, 1984; Danani 2013).

Si ha con i luoghi una relazione diversa da quella che con essi hanno le cose. Stare al mondo è sempre, per l’umano, essere in un "qui" che rivela innanzitutto una struttura d’orizzonte, e mostra un nesso fondamentale con tutti i "" rispetto a cui è un "qui", si costituisce in un plesso di nessi sincronici e diacronici, stratificando un significato denso, che va compreso. Nello spazio si legge il tempo. La logica dell’esistere è sempre anche una topologica, e la vita delle persone ha sempre a che fare con una dialettica socio-spaziale: cioè con processi che sono insieme temporali, socio-economici, politici, culturali e spaziali.

Non si tratta solamente di registrare che in alcuni luoghi si realizzano situazioni particolari, e di evidenziare le condizioni che vi favoriscono certi fenomeni, ma di riconoscere che la dimensione di luogo va compresa anche come contenuto: come un fattore che costituisce la "stoffa" dei fenomeni, non solo come lo scenario su cui avvengono. Ne consegue che i luoghi sono quindi elementi costitutivi anche della configurazione di situazioni di giustizia o ingiustizia. La rilevanza della dimensione territoriale si inscrive in questa profondità antropologica. Ciò investe di responsabilità personale e collettiva qualsiasi discorso, qualsiasi pratica che metta mano a questioni di luogo.

Le parole non sono neutre
Il territorio è una trama di luoghi: di spazi segnati che portano le tracce del tempo lungo della storia, del relazionarsi umano all’elemento naturale, connessi tra loro da vicende sociali, economiche, politiche, da storie, memorie e discorsi, da fattori ambientali. Le parole, che non sono mai neutre, ne fanno anche racconti: Balzac diceva di Parigi, appunto, come della città dei centomila romanzi. Contenuti e modi del dire esprimono ma anche nascondono, confermano, rafforzano, legittimano, aprono scenari, suggeriscono nessi, e altri ne occultano.

Bisogna fare attenzione, ad esempio, per non confondere la valorizzazione del territorio con il marketing. Valorizzare è prendere in carico un valore. Solo in modo derivato e indebolito significa piazzare una merce cercando di ricavarne un guadagno. Un valore è qualcosa di positivo e prezioso, che si fa apprezzare, che vale sia per ciò che è sia per qualcuno: custodisce una regola, un orizzonte di senso e di mondo, funge da riferimento. Certo può anche esser fatto valere come risorsa, ma questo è solo un aspetto della potenza del valore: un aspetto in qualche modo contingente, subordinato. Ciò che è merce, invece, non vale in sé ma in quanto scambiabile, non è regola ma misurato sul medio dell’utile, del piacere o del profitto.

Valorizzare è un modo particolare di considerare il valore, secondo l’intenzione attiva di farlo valere: renderlo più manifesto, più conosciuto, anche più solido e compiuto, fecondo. Esige la saggezza di scegliere mezzi adeguati e anche di restare saldi alla distinzione tra mezzo e fine, per non mettere a rischio la preservazione stessa del valore. Parlare di valorizzazione in riferimento al territorio significa considerarlo come un deposito di valori che può esser fatto valere, in cui il tutto è più della somma delle parti. Questo non significa intenderlo in modo sostanzialistico come stabile, fisso, coerente e definito, qualcosa cui potersi semplicemente applicare.

Il territorio è, infatti, realtà vivente, plurale e stratificata, densa e complessa, che si trasforma e va interpretata. Custodisce le condizioni della vita e della riproduzione della vita, nelle incongruità anche conflittuali che lo svolgersi storico delle differenti esistenze che lo costruiscono comporta. Il territorio non è una cosa. Non è neppure solamente l’ambiente in cui si vive, perché non è qualcosa di esterno all’esistenza: è piuttosto milieu (Augustin Berque, 1990; Giuseppe Dematteis, 1991).

Valorizzare implica allora, innanzitutto, un’operazione di riconoscimento di quelli che ne sono i fattori costitutivi e la loro trama: spazio aperto e costruito, elemento antropico e ambiente naturale, memoria condivisa e nuovi abitanti. Si tratta di comprendere i plessi di relazioni che sono diventati atti di territorializzazione, e quali regole genetiche li abbiano governati, ma anche di discernere gli elementi di criticità, quelle che sono state le disarticolazioni depauperanti. È inadeguato un atteggiamento utilitaristico, perché rende visibile solo ciò che è risorsa, fino a quando e per quanto possa esserlo. Valorizzare è procedere a nuovi atti territorializzanti: a decisioni e pratiche generative e feconde, inclusive e responsive, che non requisiscano né disperdano il patrimonio territoriale (Magnaghi, 2011).

Saggezza sensibile
Se il territorio è milieu, condizione vivente di produzione e riproduzione della vita, prezioso e vulnerabile, esso è un bene di cui si tratta di aver cura. Possiamo intendere cura, in prima battuta, nel senso generale suggerito da Joan Tronto e Bernice Fischer (1990; 1993): come quell’attività che include tutto ciò che si fa per conservare e continuare a "riparare" il nostro mondo, in modo da poterci vivere nel miglior modo possibile. Questo richiede la qualità morale dell’attenzione, cioè la capacità di vedere ciò di cui, indipendentemente dal proprio interesse, il territorio ha bisogno; esige un’assunzione di responsabilità rivolta ad assicurarsi che i bisogni rilevati siano soddisfatti, competenza per rispondere ad essi e responsività, cioè una tensione a uscire dal proprio punto di vista, a decentrarsi, andare incontro. Tali qualità morali vanno declinate nella formazione di un’adeguata "coscienza di luogo": quel modo di interpretarsi in relazione ai luoghi, e di farne esperienza, che consente di comprendere dove i significati si sono depositati, dove lavora la memoria, i nessi fertili e quelli critici, le configurazioni di condizioni e simboli che danno forma al presente e quelle invece che prefigurano futuri possibili.

Se aver cultura è conoscere e comprendere ciò che si dà ma anche saper leggere ciò che potrebbe essere, e immaginare, se è cogliere nessi, e prefigurare connessioni, aver domande ma anche inclinazione a lasciarne sorgere di nuove, se è saper aver presa sul reale, cultura è una forma di saggezza sensibile. È l’esercizio di una cassetta degli attrezzi per pratiche di senso, è il giacimento della creatività, antidoto alla decadenza. In questo senso si può dire che la cultura è richiesta dalla cura come attitudine etica.

Oggi si parla con insistenza di economie a traino culturale e, in fondo, è una bella novità che in campo economico si metta in primo piano il valore della cultura, incentivando anche iniziative d’impresa dedicate. Ma si deve essere accorti al pericolo che, nel funzionalizzare la cultura al mercato, se ne prosciughino le sorgenti vitali e si inneschino meccanismi di svuotamento. Costruire quella "cassetta degli attrezzi" è un valore in sé, per vivere vite piene di senso. Tra i suoi benefici effetti c’è poi la capacità di contribuire all’innovazione, in tutti campi. Le diverse scienze e la letteratura, il teatro con i suoi spettacoli dal vivo, il cinema, la musica, la pittura e la scultura nelle loro più diverse forme, la coltivazione della memoria collettiva dei saperi e delle pratiche anche materiali, sono il tornio, il telaio, le fucine che costruiscono quegli attrezzi.

Beni comuni
La riflessione sulla "coscienza di luogo" mette a tema la consapevolezza di una tessitura di beni convergenti e beni immediatamente e mediatamente comuni. In base alla distinzione operata da Charles Taylor (1992), convergenti si dicono i beni che possono essere prodotti solo dall’unione degli sforzi ma essere goduti anche individualmente, mentre si intendono come comuni quelli che prevedono co-produzione e co-fruizione, e possono essere mediatamente o immediatamente tali (se dall’essere goduti insieme acquistano valore aggiunto). E i luoghi sono, appunto, patrimonio di nessi, stratificazioni, intersezioni, co-prodotti e diversamente co-fruiti.

Nella profondità di questa trama si offre all’esperienza il "comune come bene", che è, per ciascun essere umano, qualcosa di proprio e tuttavia inappropriabile: quella condizione di un essere insieme, materiale e relazionale, a cui gli esseri umani appartengano e che ad essi appartiene.
Lo si può cogliere, ad esempio, nelle configurazioni che prendono il nome di spazio pubblico: perché esista non basta che non sia proprietà di qualcuno, e neppure che sia in capo a qualche istituzione. Pubblico è il luogo che si rivolge a ciascuno come fattore di legame, ed a cui ciascuno ha titolo a rivolgersi. Prende forma di opere d’arte, palazzi, piazze, musei, biblioteche, parchi, scuole, paesaggi, ma anche di scavi archeologici, di sale cinematografiche: sono i luoghi dove viene eseguito quel repertorio di una società che è il suo patrimonio culturale. Si qualificano nel rendere possibile l’incontro della pluralità: lì il pensiero, la sensibilità, l’affettività lavorano e si trasformano come conoscenza, immaginazione, memoria. Il patrimonio culturale, infatti, non si conserva per inerzia, ma grazie alle interpretazioni che ne vengono offerte: l’esecuzione rende attuale qualcosa che le è consegnato, inserendolo in nessi imprevisti, rilevando modi differenti di essere umani.

Il patrimonio territoriale è una delle coniugazioni del patrimonio culturale. Potente medio di educazione alla cittadinanza e di innalzamento umano attraverso i modi del configurarsi socio-spaziale, si costruisce nel tempo lungo della storia anche attraverso conflitti, contaminazioni e intersezioni. Non deve essere ridotto alla servitù turistica e al consumo intellettuale da spettacolo. Non va compreso nella prospettiva che possa servire a fare qualcosa, a produrre rendita, ma innanzitutto in quanto importante per essere e diventare qualcuno: più civili (Tommaso Montanari, 2011; 2013). In questo senso va intesa la tutela. Una collettività, come fenomeno politico e sociale storico, non è infatti un mero dato di fatto, ha un costituirsi (che è continuo), struttura relazioni (che certo sono anche di potere), deve conservare la propria identità (che è vita, quindi dinamica): il patrimonio territoriale è il laboratorio dove questo è possibile.

Da qui deriva l’urgenza di risemantizzare l’idea di sostenibilità, perché tenga conto di molte dimensioni indissociabili: antropologica, sociale, economica, ecologica, geografica e culturale. Non si tratta semplicemente di attuare una conservazione in prospettiva di risparmio, in una forma di egoismo di specie, né solo di distribuire la ricchezza in modo sufficiente ad evitare conflitti sociali o fallimenti imprenditoriali. Si è invitati a cambiare sguardo per procedere ad atti territorializzanti che costruiscano nessi fecondi tra esseri umani, luoghi, cultura, socialità, economia. Contrastando ogni forma di utilitarismo, questo ripensamento invita ad una nuova riflessione sul limite, e pone la questione della misura. La cornice per intenderlo è una rinnovata interrogazione della finitezza dell’umano.

L’idea di finitezza, di per sé, non basta a scongiurare il rischio della pretesa di onnipotenza, a esentare da pulsioni di arroganza e di prevaricazione (Franco Totaro, 2015). Essa può infatti farsi assoluta, sciolta da ogni vincolo, chiusa in una totale definitività. Finitezza e misura non sono sinonimi. Solo se è aperta, la finitezza dell’umano resta all’altezza di sé stessa: pensata come la possibilità della ferita, prima ancora che della ferita in atto, invoca la cura entro il perimetro della fisiologia dell’esistere (Ricouer, 2010; Alici, 2016). La cura, allora, si offre come il nome della misura: cura come aver cura e prendersi cura, prima ancora di dover curare, in forme sempre da ripensare.

Pratiche di condivisione
Se la questione della valorizzazione del territorio va quindi attentamente considerata secondo i contenuti che la articolano, non sono però da trascurare i processi attraverso cui tali contenuti vengono di volta in volta sia determinati sia trasformati in pratiche. Il metodo insomma, ossia "la via attraverso cui" della valorizzazione, ne è parte cospicua. Non solo perché coscienza di luogo e cura dei luoghi sono tanto più efficaci quanto più sono impegno diffuso (come insegnano anche le politiche ambientaliste), e quindi si tratta di costruire condivisione per pervenire a risultati migliori, ma soprattutto perché qui sono in gioco fattori costitutivi del condurre una vita e, quindi, questioni di giustizia. Modi di governance che favoriscano la costruzione sociale delle scelte non solo sono più efficaci ed efficienti, ma sono un dovuto riconoscimento di dignità nella sfera pubblica. C’è un nesso tra buone politiche territoriali e rafforzamento della democrazia.

È preferibile, oggi, parlare di scienze, pratiche, politiche territoriali poiché, come si diceva, le parole non sono neutrali e l’urbanistica evoca nel proprio nome un presupposto di centralità della città che va ripensato: è urgente rivedere il rapporto tra ambiente urbano e rurale, tra spazio aperto e costruito. Va messo in agenda anche un nuovo interrelarsi tra le diverse discipline coinvolte dalle molte dimensioni dei processi territoriali, così come tra i saperi esperti e il patrimonio di conoscenze contestuali della società insediata, sempre più complessa e diversificata. Da prospettive plurali, e facendo dialogare categorie e paradigmi teorici differenti, si tratta di costruire un nuovo linguaggio per narrazioni e pratiche più attente, responsabili, competenti, responsive.

Un sentiero percorribile, per la costruzione condivisa di linguaggi, comprensioni, scenari, decisioni, sono i processi deliberativi. Si tratta di un modo di partecipazione che si articola come un reciproco “rendere ragione” che non ha contenuti meramente procedurali (non è sufficiente addurre il fatto che la maggioranza abbia un certo orientamento), né meramente sostanzialistici (non si può fare riferimento a valori fondativi assoluti): si svolge come scambio di agomenti accettabili per persone libere ed eguali, che abbiano progetti di vita propri e siano alla ricerca di modi di cooperazione equi. Il processo deliberativo comporta dei vantaggi di “efficienza democratica”, operando come un potenziamento della singola persona e insieme della collettività. Offre, infatti, l’occasione per un’autoriflessione che favorisce la consapevolezza, accresce la dotazione di informazioni, migliora la percezione della posta in gioco e delle problematiche connesse e, quindi, la probabilità di decisioni più adeguate. Sviluppa, inoltre, la capacità di senso civico, mentre anche incrementa la legittimità delle decisioni (Gutmann e Thompson, 1998).

L’attivazione di percorsi deliberativi come via per processi di valorizzazione territoriale richiede un’adeguata architettura istituzionale e anche condizioni di contesto e di "atmosfera". Sono implicate questioni di accesso, di posture relazionali ed espressive, di convinzione civica: è necessario un grande investimento formativo, e la cultura ne è il terreno buono di coltivazione.

Chi si pone in una prospettiva di futuro, inoltre, non può accontentarsi di procedere ad aggiustamenti tattici al di fuori di una tensione che osi immaginare scenari strategici. È richiesto il coraggio di porre la questione del senso: che, nell’esclusivo perseguimento di funzionamenti ed efficacia, oggi, invece, sembra l’unica questione a non avere più senso.

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