Dall’epicentro del terrore le Acli di Francia, impegnate nell’associazionismo e che vivono come un ponte tra due culture, percepiscono forse più di altri la responsabilità di far sentire la loro voce operosa e di lavorare a quello che pare il pre-requisito fondamentale per sminare il terrorismo: l’educazione

Se possiamo considerare gli attentati del 13 novembre come un terremoto nella vita quieta di tanti di noi, allora è probabilmente corretto chiamare “epicentro” questi quartieri di Parigi Est nei quali vivo. E se dovessi azzardare una prima – paradossale – legge, basta sull’esperienza, direi che la paura cresce più si è lontani dall’epicentro. Rimbombata dai media, sviscerata nei suoi dettagli, allontanata dal suo contesto, la tragedia ci proietta in un mondo insicuro, dove non si può non guardare il prossimo senza cercare conferme o smentite della possibilità che egli ha di nuocerci.

Da qui, dall’epicentro, dopo i primi due giorni di costernazione, di ovatta nel cervello per rendersi conto che davvero, sì, tutto questo è successo a pochi metri da casa, in posti frequentati, in vie affollate, è scattato un lucido e cinico sistema salvavita, che suona più o meno così: percentualmente, quanti sono 130 morti, rispetto ai 2.500.000 cittadini parigini (intra muros)? Pochi. Succederà di nuovo? Sì, è probabile. Che probabilità ci sono che capiti a me o ai miei cari, la prossima volta? Meno che avere un incidente in macchina, meno che prendere un brutto male, meno di centinaia di altre disgrazie, meno che vivendo in zone di guerra in tante altre parti del mondo. E allora che si fa? Si respira a pieni polmoni (enfin, compatibilmente con l’inquinamento) e si riprende la vita di prima, apprezzandone ancora di più le piccole gioie quotidiane, e cercando, se possibile, di farsi due o tre domande in più, cercando con più ostinazione due o tre risposte.

Ma la sfida più grande è forse quella di provare a impostare correttamente le domande. O, ancora con maggiore urgenza, di togliere dall’arena pubblica le domande mal poste, faziose, e le risposte che si presentano come un autogol della democrazia già al primo sguardo.

E` chiaro che in questo nuovo compito affidato a tutti cittadini (nel loro essere on-line e off-line, consumatori, elettori, attori della vita quotidiana, giornalisti, politici, educatori) stiamo navigando in alto mare. Sospendere Schengen, privare di cittadinanza, sorvegliare in nome della sicurezza, sono scelte che ci fanno sentire più protetti? Che rendono forse più solide le basi del nostro vivere insieme?

Il punto, che appare evidente dall’epicentro, ma, sono sicura, anche nei cuori di tante persone di buona volontà, non è piuttosto che la miscela di condizioni geopolitiche, sociali, e perché no, anche di noia esistenziale della nostra adolescenza europea, era evidente a tutti un giorno prima degli attentati (anche quelli di gennaio) e lo è con altrettanta vividezza all’indomani? Non ha radici che affondano nella storia degli ultimi due secoli, e responsabilità politiche, culturali, finanche urbanistiche molto più recenti, che abbiamo contribuito, come collettività, a mettere in opera?

Saliha Ben Ali, madre di un «martire» che ha lasciato il Belgio per morire in Siria, si spiega così la scelta di suo figlio: Lo Stato Islamico dice "qui abbiamo lavoro per voi, donne per voi, spazio per voi, qui siete i benvenuti, non importa il colore della vostra pelle, noi vi accettiamo".

Per un gioco di specchi distorti, le nostre democrazie costruite in secoli e sangue per dare libertà e uguaglianza a tutti i cittadini sono considerate da alcuni meno appetibili di un regime oscurantista e liberticida, in grado però di essere persino più globalizzato e mediatizzato di noi, che pensavamo di essere i motori della globalizzazione e di aver inventato tutti i mezzi di comunicazione e il modo di usarli efficacemente.

Di fronte a questo scenario, noi delle Acli Francia che siamo impegnati nell’associazionismo e che ci viviamo come un ponte tra due culture, abbiamo forse più di altri (ma sicuramente con tanti altri) la responsabilità di far sentire la nostra voce operosa e di lavorare a quello che pare il pre-requisito fondamentale per sminare il terrorismo: l’educazione.

Un’educazione che risponda al mondo complesso del III millennio insegnando ad articolare le proprie (necessariamente plurime) identità con armonia, ad ascoltare l’emotività e confrontarla con il mondo reale, anche imparando a convivere con una certa dose di inevitabili frustrazioni, che insegni a vivere la propria spiritualità con pienezza senza dimenticare che l’arena pubblica è una sola ed è a quella che bisogna alla fine riferirsi. Un’educazione che non abbia bisogno di master di quarto livello in relazioni internazionali per capire il mondo, ma torni a dare gli strumenti per riconoscere le ingiustizie e il coraggio per mettere in atto, anche nel proprio piccolo, quei gesti che scardinano le ineguaglianze e rendono solide le comunità. Un’educazione, o forse meglio dire una formazione continua, visto che l’analfabetismo delle pratiche di cittadinanza colpisce ainoi soprattutto le generazioni che hanno già diritto di voto.

Per quelle a venire, non possiamo che ricordare l’epitaffio di Maria Montessori: "io prego i cari bambini, che possono tutto, di unirsi a me per la costruzione della pace negli uomini e nel mondo".

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