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Si apre dinanzi a noi una straordinaria stagione di rinascita spirituale e creatività culturale, di purificazione e rinnovamento del cristianesimo in un confronto radicale con le culture della modernità. Alle religioni e ai singoli credenti il compito di favorire questa trasformazione antropologica verso una umanità post-bellica 

Il rapporto tra le religioni e la guerra è stato sempre molto controverso: da una parte ogni autentica tradizione spirituale parla della pace come valore supremo da perseguire, pace con Dio innanzitutto, pace interiore, ritorno all’unità perduta, ma poi anche pace tra tutti gli uomini; dall’altra però la storia ci mostra una sequela quasi ininterrotta di conflitti e di guerre spesso motivate anche da ragioni di ordine religioso.

Oggi il Papa ci dice con chiarezza che uccidere in nome di Dio significa bestemmiare, ma dovremmo ricordare che questa dottrina è molto recente, e contraddice un pensiero e una pratica che risalgono addirittura a sant’Agostino, e che si fondavano sul concetto di giusta persecuzione degli empi e di guerra giusta: “V’è una persecuzione ingiusta inflitta dagli empi alla chiesa di Cristo e v’è una persecuzione giusta inflitta agli empi dalle chiese di Cristo”. Ordini e incitamenti a uccidere proprio in nome di Dio, a sterminare intere popolazioni, a distruggere templi e opere d’arte, e a proibire ogni libertà di coscienza o di religione, non li troviamo solo nei testi coranici, ma in quasi tutti i testi sacri e nell’intera storia cristiana, a partire dall’Antico Testamento e si può dire fino a oggi: “Però delle città di quei popoli che il Signore, tuo Dio, ti dà in eredità, non lasciare nessuno in vita, ma votali allo sterminio” (Dt 20,16), mentre ancora nel 1888 Leone XIII, nella enciclica Libertas praestantissimum, tuonava contro ogni tipo di libertà: “non è lecito invocare, difendere, concedere una ibrida libertà di pensiero, di stampa, d’insegnamento e di culti, come fossero altrettanti diritti che la natura ha attribuito all’uomo”.

Dunque dobbiamo essere consapevoli che solo da pochissimi decenni ci troviamo a vivere, almeno in Occidente, in una fase storica del tutto nuova, inedita, e quindi piena di incertezze. Per la prima volta nella storia stiamo infatti mettendo in discussione l’intera modalità bellica di rapportarci gli uni agli altri, e quindi la forma antropologico-culturale che finora ha dominato su tutta la terra. Finora insomma gli ideali di pace venivano di fatto relegati in un ambito strettamente privato e spirituale, mentre la storia effettiva era affidata quasi integralmente alle modalità belliche di relazione tra gli uomini.

Ora sembra che l’umanità si ritrovi davanti ad bivio: o continua a vivere in base alle forme egoico-belliche dominanti, votandosi di fatto all’autodistruzione, nelle diverse varianti in cui ci si prospetta (ambientale, guerra di civiltà, disumanizzazione progressiva etc.); oppure si avvia collettivamente verso un processo globale di conversione, di cambiamento della mente, che ci indirizzi nella direzione di una modalità inedita, e cioè postbellica, di vita sulla terra.

Credo sia molto importante comprendere che ci troviamo di fronte ad una vera e propria “rivoluzione culturale” globale, come la chiama Papa Francesco (Laudato sì, n. 114), ad un nuovo inizio antropologico (n. 207), ad un salto di coscienza planetaria. Non si tratta cioè soltanto di divenire un po’ più tolleranti, non bastano le reiterate petizioni morali, non basta la retorica della compassione, declinata magari nel lessico laicistico dei diritti; qui si tratta di deciderci per un salto di portata appunto antropologica, e questo richiede una consapevolezza e una decisione senza precedenti.

Una civiltà della pace, insomma, non è ma esistita. Noi antropologicamente conosciamo solo civiltà fondate sulla guerra, ed è la guerra, dall’Iliade e dall’Esodo in poi, che ha dato ai nostri popoli le strutture innanzitutto mentali dell’etica, del diritto, dei segni del potere, e perfino dell’estetica. Questo immane ciclo storico, sostanzialmente egoico-bellico, in cui anche le religioni sono state spesso sorgenti di conflitto e di divisione, è finito, non possiede più alcuna energia creativa, e si sta manifestando anzi come intrinsecamente nutrito da un radicale istinto di morte e di distruzione.

In questa falda epocale il cristiano può rilanciare l’annuncio della nuova umanità inaugurata dal Cristo sulla terra, può annunciare in modo nuovo, in una vera e propria Nuova Evangelizzazione, che l’uomo egoico-bellico (segnato dalla ferita del peccato, e dall’odio e dal terrore che ne derivano) è veramente finito, ma che una nuova umanità è già nata e sta crescendo sul pianeta, e proprio ora sta emergendo in modo inedito e perentorio, chiamandoci tutti a forme inaudite di vita e di relazionalità ad ogni livello (dal matrimonio al pianeta). Con il suo annuncio di nuova umanità pacificata e costruttrice di pace, il cristiano può inoltre dialogare con tutte le altre tradizioni spirituali, favorendo l’emersione delle loro stesse componenti pacificatrici.

Si apre dinanzi a noi una straordinaria stagione di rinascita spirituale e di creatività culturale, di purificazione e di rinnovamento del cristianesimo storico in un confronto ben più radicale con le culture della modernità, a loro volta chiamate a purificarsi, e a riscoprire le proprie fonti cristologiche, come Benedetto XVI ci ha costantemente ricordato.

Ma tutto ciò potrà fiorire e direi esplodere nel clima stagnante della notte occidentale, solo se molti uomini e molte donne si avventureranno lungo il cammino della propria trans-figurazione, del proprio mutare mente, del proprio esodo quotidiano dallo stato interiore egoico-bellico, della propria realizzazione divino-umana. E questo richiede una revisione radicale di tutti gli itinerari formativi, sia scolastici che catechistici.

La nuova cultura della trasformazione antropologica, infatti, non può che generare una inedita pedagogia dell’umanità nascente.

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