Proponiamo un’ampia intervista a Ruth Dureghello, Presidente della Comunta ebraica di Roma, che ci ha ospitato nel suo studio presso la Sinagoga della capitale

Quest’anno il Giorno della Memoria ha coinciso con la ricorrenza dell’ottantesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali contro gli ebrei, nell’Italia fascista, ad opera di Vittorio Emanuele III. Una coincidenza singolare. E’ importante fare memoria di questo evento (le leggi razziali)? Cosa significa per voi celebrare ogni anno la Giornata delle Memoria? Perché è importante?

Partiamo dalle leggi razziste, preferisco parlare di leggi razziste perché di quello si tratta e si è trattato, e poi arriviamo alla memoria. Questa coincidenza della ricorrenza dell’ottantesimo anniversario della promulgazione di quelle terribili leggi è stata quanto mai significativa ed importante quest’anno. Perché ha riportato alla memoria alcuni passi importanti della storia e della storia italiana in particolare. Cosa succede nelle ricorrenze genericamente della memoria? Si pone prevalentemente l’attenzione sulla Shoah come fatto in se, sulle catture, sulle razzie, sulla deportazione, sullo sterminio degli ebrei e con difficoltà si analizzano le fasi che hanno preceduto tutto ciò. Che, evidentemente, non sono state immediate: c’è stata un metodica attenzione, addirittura in Italia con la promulgazione di queste leggi e con la propaganda. C’è stato tutto un percorso culturale ed ideologico che ha portato fino alla deportazione e al tentativo di sterminio. E’ un passaggio su cui molto raramente si pone l’attenzione e che molti pochi valutano con la giusta considerazione. Anche perché ancora purtroppo, dopo ottant’anni, è difficile da sfatare il mito degli “italiani brava gente” e dell’assenza di responsabilità italiana su quello che ha rappresentato quella nefasta epoca, quel periodo terribile del regime fascista.

L’ha detto molto bene il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella durante il discorso tenuto in occasione della giornata della memoria 2018: “Il fascismo non ebbe nulla di buono”. Anche quelli che volevano e vogliono tuttora sottolineare qualcosa di positivo del periodo del regime di Mussolini, devono fare i conti con il fatto che ogni passo, ogni momento di quella dittatura era preludio all’entrata in guerra, con tutto quello che l’entrata in guerra ha comportato anche in termini di persecuzione degli ebrei italiani. E’ importante ricordare le leggi razziste perché questo ci permette di fare un’analisi più completa di quella che è stata la nostra storia e di far emergere le reali responsabilità, troppo spesso taciute.

Cosa significa fare memoria a più di settant’anni di distanza dalla Shoah… Penso che più passa il tempo e più sia importante fare memoria. Noi ovviamente la facciamo tutti i giorni; non c’è famiglia ebraica, soprattutto nella comunità di Roma, che non abbia nel cuore e nell’anima il solco della profonda ferita di un parente, di un bisnonno, di uno zio che non è tornato dai campi in Polonia e in altri luoghi, e che quindi ha subito lo sterminio. Più il tempo si dirada e più si corre il rischio che quello che ha permesso che tutto ciò accadesse si possa riproporre. E’ un pericolo quanto mai attuale ed incombente. Abbiamo segnali tangibili in Europa, purtroppo, ed in altre realtà. L’Italia vive ancora una situazione, grazie a Dio, di privilegio in questo senso. Ma non posso non far riferimento all’Ungheria piuttosto che ad alcuni partiti della Grecia, ad alcuni episodi in Spagna e, non ultimo, a quello che sta accadendo in Polonia con la promulgazione di leggi che interessano anche la ricostruzione della storia e ne rivedono, in alcuni punti, le responsabilità e in altri negano ciò che è stato. Quindi dopo oltre settant’anni dopo è importante fare memoria? Assolutamente sì. Credo sia fondamentale parlare sempre con i giovani, non solo in questa occasione (giornata della memoria).

Alcuni studiosi sostengono che la posizione del fascismo sulla questione ebraica va diversificata tra prima dell’emanazione delle leggi razziali nel 1938 e dopo. E’ d’accordo? Come è cambiato il rapporto tra il mondo ebraico italiano e il fascismo dopo l’emanazione di queste leggi?

Alla domanda potrebbe rispondere meglio uno storico. Posso rispondere per aver letto saggi e per essere entrata un po’ nel merito. Quello che dobbiamo aver chiaro è gli ebrei italiani, gli ebrei romani soprattutto, hanno vissuto i primi decenni del ‘900 come un momento di grande rinascita, di risorgimento. Dopo trecento anni di ghetto e di segregazione, l’ambizione degli ebrei era quella di sentirsi più italiani degli italiani. Tutto ciò che connotava l’italianità era quindi un momento di emancipazione vera e propria. Anche molti ebrei, nella fase iniziale, sull’onda di quello che era un bisogno sociale, economico, ideologico del Paese, hanno cavalcato l’idea di aderire al partito fascista o piuttosto di favore un certo tipo di percorso. Le leggi razziste, in questo senso, sono state un grande tradimento. Non ci dimentichiamo che c’erano stati gli accordi tra lo Stato Italiano e la comunità ebraica nel 1930, dopo la stipula dei Patti Lateranensi, avvenuta nel 1929.

C’è stata un prima fase in cui il rapporto tra il regime le comunità ebraiche era un po’ più “sereno”. Il fascismo però a tutto era teso fuorché ad essere pacificatore e su quell’onda, nel momento in cui avviene la promulgazione di quelle leggi anzi dopo il discorso di Triste – dove Mussolini reclama una paternità sul piano della politica razzista dell’Italia e tutto quello che da quello è derivato – avviene una spaccatura inevitabile. Uno degli episodi più noti è quello del rastrellamento del ghetto di Roma avvenuto il 16 ottobre del 1943 ad opera delle SS durante il quale viene catturato un generale, ex capo di stato maggiore dell’esercito che era stato degradato e cacciato. Proprio lui la mattina del 16 ottobre scrive a Mussolini dicendo che non si spiega quali colpe abbiano gli ebrei, incolpandosi lui stesso. Quasi a legittimare quel tipo d’intervento ricercando in se stesso una colpa. Questo è un processo psicologico abbastanza facile da percepire. Arriva a dire: “In cosa ho sbagliato. Se credo nel Paese, nella nazione allora sono io che sto sbagliando”. Mettersi in discussione prima di discutere la situazione ed il contesto dentro al quale si era. Bisognerebbe ritornare a ottant’anni fa per de-contestualizzare e capire esattamente. Le valutazioni degli storici, la stessa Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo di Renzo De Felice pone l’accento su alcuni elementi ma, a mio avviso, non li contestualizza sufficientemente e arriva quasi a colpevolizzare gli ebrei di aver compiaciuto quel regime. In realtà non si trattava di compiacenza o di complicità, si si era in una fase storica all’interno di un percorso degli ebrei italiani, ripeto, romani in particolare, in cui il bisogno di emancipazione passava anche per l’aderire ad un’ideologia che poi li tradirà, come già ho sottolineato.

A Roma i fascisti che comportamenti hanno assunto verso gli ebrei? I cittadini romani in che modo hanno aiutato gli ebrei nel periodo fascista?

Ci sono stati dei comportamenti diversi legati alle persone. Bisogna parlare di uomini e di donne che ad un certo punto hanno assunto comportamenti diversi. Ci sono state persone che si sono subito rese conto che si stava commettendo uno scempio e che hanno capito che era inammissibile che il vicino di casa – con cui, fino al giorno prima, avevi mangiato insieme alla domenica o con cui andavi a fare una passeggiata – da un giorno all’altro diventasse il nemico. Qualcuno ha compreso questa dinamica e si è comportato di conseguenza e da lì si sono aperte delle case di privati, si sono fatte delle soffiate per avvertire gli ebrei di quello che stava accadendo. In altri casi, forse la maggior parte per la storia che conosciamo, fino all’aprile del 1944 gli ebrei venivano riconosciti per le strade dai cittadini italiani, dalla “brava gente”, e denunciati alle guardie militari naziste piuttosto che fasciste, per farli catturare e poi deportare.

Quello che è chiaro è che ad un certo punto le coscienze delle persone scosse dalla guerra, dal contesto hanno reagito in maniera differente. C’è stato chi ha fatto la scelta di rigettare in toto il fascismo per andare per una strada di valori assoluti e universali e chi invece ha creduto che la giustizia non fosse quella “oggettiva” ma quella imposta dalle leggi e dal regime e che si è comportato di conseguenza. Non possono non pensare a tutti quegli italiani che, per esempio, quando sono state tolte le licenze commerciali agli ebrei sempre per via delle leggi razziali, si sono impossessati delle attività commerciali e che ne hanno beneficiato non restituendole dopo la guerra. Ancora oggi abbiamo questioni in ballo su quella privazione di licenze di attività commerciali.

Quale nesso esiste tra fascismo e razzismo? A suo avviso sta riemergendo il fascismo? In quali forme?

Per entrare nel dettaglio in modo più specifico non è che il fascismo sta riemergendo. In realtà non si è mai sedato, non è mai morto. In realtà quello che preoccupa di più non è tanto la presenza dei fascismi ma la maniera in cui questi vengono ostentati. C’è una sorta di aggressività o di veemenza nell’ostentazione di simboli, di linguaggi di odio, di diffusione di concetti che sottolineano la distinzione, in senso negativo, che emerge in maniera molto forte, senza remore, senza riserve, senza pudore. Si sono abbattuti quei limiti che faticosamente, dopo la seconda guerra mondiale, con la promulgazione della Costituzione e con un lavoro consapevole sulla coscienza collettiva fondato sul rispetto delle libertà, della democrazia e della dignità della persona, si erano costruiti. Oggi, sempre più facilmente e sempre più in maniera semplicistica (si semplifica infatti una cosa di una gravità assurda e si prendono le distanze anche quando si dicono le stesse cose, il che è contradittorio) si torna, in maniera sfacciata, a parlare di quei temi che sono stati oggetto della propaganda fascista, precedente alla promulgazione delle leggi razziste. Credo che ci sia qualcosa che non quadra.

La cultura del qualunquismo, dell’attacco indiscriminato e continuo alla politica e alle istituzioni può essere considerata una forma di fascismo?

Assolutamente sì. Sono tutte concause. Partiamo da un assunto. La fase storica che stiamo vivendo è sicuramente una fase molto complessa che vede il riemergere di difficoltà di carattere economico e sociale dovute a motivi differenti rispetto a quelli di ottant’anni fa. Siamo in una fase di stravolgimento e di sbilanciamento: migrazioni; una fase geopolitica con elementi importanti di pressione ad Est piuttosto che ad Ovest; un’Europa che vacilla rispetto ad alcuni passaggi, per non parlare del Paese e della situazione che stiamo vivendo carica di una profonda incertezza. Tutto questo ha prodotto nel cittadino un sentimento di sfiducia e il bisogno di attaccarsi a qualcosa di solido che dovrebbe essere, generalmente, una politica sana fatta da chi ha maturato un percorso e che si ispira a quei valori della democrazia. Quando invece il linguaggio, anche della politica, diventa un linguaggio divisivo che si ispira all’odio, un linguaggio qualunquista, se non populista o peggio ancora che va alla ricerca di un nemico, per scaricare la propria responsabilità e connotarsi un po’ fuori dalle parti per attrarre consensi, è evidente che lì è più facile che riemerga in maniera virulenta – fenomeno che ripento non si è mai sopito – un approccio fascista alla realtà. E li fascismo, razzismo, xenofobia, omofobia, antisemitismo riemergono e crescono.

Sono rimasta senza parole per l’omicidio di Mireille Knoll, una sopravvissuta alla Shoah, bruciata e accoltellata per antisemitismo. Non si può stare in silenzio contro l’odio antiebraico che cresce. I dati relativi all’antisemitismo degli ultimi anni sono in fortissima crescita. Anche perché l’antisemitismo, come tutte le forme di razzismo, si evolve. Non possiamo dire che l’antisemitismo di oggi è lo stesso del 1930; lì la connotazione era per l’ebreo responsabile di un certo stato di cose mentre oggi l’antisemitismo è cambiato. E’ molto legato al tema di Israele e si recepisce, dalla politica in medio-oriente, un atteggiamento di odio verso gli ebrei italiani non riuscendo a distinguere tra la situazione politica di un Paese e la cultura di cittadini italiani di origine ebraica come noi.

Come è perché essere antifascisti oggi?  Come educare i giovani (che in alcuni casi sembrano attratti dal fascismo o/e dal nazismo) e tutti i cittadini ai valori democratici e alla nonviolenza?

Questa è la domanda delle domande, la sfida delle sfide. Come educare all’antifascismo…Mi verrebbe da rispondere: a che cosa dobbiamo educare se non li educhiamo all’antifascismo? Qui ci sono le basi e il fondamento della cultura, della tradizione e della sostanza che oggi rappresentiamo. Questo Paese nasce sulle ceneri di quell’ideologia, questo Paese si conferma e si afferma culturalmente e politicamente proprio su questa connotazione. Se da qui non ripartiamo abbiamo poca speranza di poter sopravvivere e diventa molto più facile che, quello che purtroppo abbiamo visto, si possa ripetere. Educare all’antifascismo significa, con molta semplicità, partire dai valori universali del rispetto dell’uomo, dall’articolo 2 e dall’articolo 3 della nostra Costituzione che parla di pari dignità sociale. Questi sono i punti cardine per essere antifascisti, da lì si deve ripartire: dalla dignità, dal rispetto della diversità, dal dialogo, dalla solidarietà. Sono tutti valori che troviamo all’interno del percorso della Costituzione e che dovremmo più spesso leggere e approfondire. E veniamo alla seconda questione. E’ vero c’è una grande fascinazione in questi simboli nel mondo giovanile, ma non solo nel mondo giovanile. Giro parecchio per le scuole e vado a parlare con i ragazzi e quando i ragazzi si fanno coinvolgere – e questo succede abbastanza spesso perché sono molto partecipativi e abbastanza proattivi – hanno ben chiaro quale sia il limite e fino a dove si può e si deve arrivare. Quello che hanno meno chiaro, quando sono affascinati, è quali potrebbero essere le conseguenze. Però, nel momento in cui si parla, si ragiona e si spiega per i ragazzi è facile comprendere fino a dove poter arrivare.

Un po’ più difficile invece è il discorso con gli adulti. Questi sono supponenti, presuntuosi, pensano di sapere tutto, non sono disponibili ad ascoltare. Lavorare sulla coscienza civica di questo Paese è secondo me la vera sfida. Ancora siamo di fronte ad un Paese che non ha fatto i conti con le proprie responsabilità –parlo ovviamente delle generazioni più mature – che fa difficoltà a riconoscere e a condannare un passato che sicuramente è da condannare e che ancora, quando pensa agli ebrei, pensa ad una entità esterna rispetto alla collettività. Serve uno sforzo di tutti: delle istituzioni, della politica, delle realtà sociali, del dialogo, delle altre religioni. Deve innescarsi un processo – ed è un po’ quello che abbiamo cercato di porre in essere in questi anni – di coinvolgimento e di responsabilizzazione di tutti. Non può essere delegato al mondo ebraico questo continuo stimolo sulla coscienza anche perché la Shoah, la persecuzione, non è un tema ebraico ma è un tema dell’umanità. L’uomo si deve rendere conto che quando, ad esempio, fa politica e usa un linguaggio divisivo o peggio ancora un linguaggio di odio verso l’altro, questo comportamento ha delle conseguenze negative.

Quale ruolo specifico, quale differenza assoluta femminile si può giocare nell’esperienza educativa su questi temi di cui abbiamo parlato?

Qui si tratta di buon senso; ben venga chi ce l’ha, uomini o donne che siano. L’approccio femminile al lavoro, all’analisi dei problemi, al rapporto con gli altri, all’educazione è sicuramente diverso da quello maschile. Quello femminile è’ più concreto e più accogliente. Sono due elementi che sembrano in contrasto e invece sono complementari. Da una parte, cerchiamo di andare più dirette al punto (siamo abitate a fare 150mila cose e non abbiamo tempo da perdere in chiacchere) dall’altro, alla stessa maniera c’è bisogno di coinvolgere e di mettere seduti tutti intorno ad un tavolo perché non ci siano conflitti e contrasti. In famiglia lo facciamo continuamente nel lavoro ancora di più. Può essere un vantaggio? Non lo so… Quello che è certo che alle volte ragionando con le donne più facilmente si arriva alle soluzioni e con minore impegno di tempo e di energie.

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