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La questione del referendum svizzero sull’edificazione dei minareti pare tener banco nell’orizzonte politico-giuridico contemporaneo. Riprova ne è il pezzo a firma di Guido Ceronetti apparso sul Corriere del 14 dicembre. L’esito della votazione costituisce di certo l’occasione per un dibattito sul ruolo dell’integrazione e del rapporto tra le varie religioni in Europa (vedi il contributo di Davide Rondoni).

In questa sede, però, l’occasione è propizia per riprendere le considerazioni svolte da Ceronetti e tentarne qualche sviluppo coerente sotto il profilo istituzionale.rn

Con la prosa erudita che lo contraddistingue, il letterato mette il dito sulla piaga senza colpo ferire. Smentiti i “giusti” sondaggi della vigilia, contraddetto, con voto popolare, il Governo ed il Parlamento federale, la Svizzera si è così attirata le ire funeste della «santabarbara mondiale». La presidenza di turno svedese dell’UE ha espresso pieno sconcerto per l’esito del referendum. Al suo arrivo al Consiglio europeo, il ministro per l’immigrazione Billstrom si è detto “sorpreso” e di trovare “strano” che una materia di questo genere sia stata decisa con un referendum. Il ministro per l’integrazione svedese Sabuki ha poi rincarato la dose, esprimendo “rammarico” che la Svizzera si sia espressa in questa materia con un referendum, giungendo ad affermare che «Il sistema svizzero è buono perché chiede ai cittadini di decidere, ma talvolta può essere usato nella maniera sbagliata come è avvenuto in questo caso».

La battuta permette di cogliere la questione sottesa: se in un regime democratico la sovranità appartiene al “popolo”, chi decide quali materie sottrarre a tale sovranità?

È opportuno richiamare qualche elemento di contesto. Dopo il divieto al velo integrale introdotto nella laica Francia, la Svizzera si palesa come il primo paese al mondo in cui una decisione restrittiva con così ampi riflessi politici sia assunta non da un Governo o da un Parlamento, ma direttamente attraverso una consultazione referendaria. E se Manzoni avrebbe arrischiato un “Vox populi, vox Dei”, il Ceronetti, acuto studioso del primo, si “limita” ad osservare come «un cittadino di libera repubblica (…) vota come crede e non come vorrebbero i savonaroleschi talebaneggianti euro-italici ai quali sfugge del tutto il senso delle proporzioni». Non riteniamo di seguire oltre il suo j’accuse dai profili perfino virulenti, ma vorremmo tentare di coglierne il nucleo nevralgico: quanto la sovranità popolare è in grado di esprimere l’identità di una comunità politica?

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Si è detto in questi giorni che l’Islam farebbe paura agli svizzeri, i quali intendono difendere, anche nel paesaggio urbano, l’immagine di un popolo di tradizione cristiana: dunque, nessun minareto accanto ai molti campanili. Non è facile esprimere un parere convinto sul punto.

Lo stupore rimane comunque, ma per altri motivi. Infatti, la Svizzera, come tutto l’occidente, è chiamata a fare i conti con la sfida della democrazia, e i suoi governanti hanno dovuto accettare il confronto con un popolo che si esprime direttamente e molto spesso li sconfessa.

Il dubbio è troppo spontaneo per poterlo tacere: forse che in qualsiasi altro stato europeo si fosse tenuto un referendum con un quesito analogo l’esito sarebbe stato diverso?

Lasciamo il timore al poco sereno tremore che pervade di certo anche il lettore e torniamo al citato profilo istituzionale.

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Le questioni possono essere almeno due: una di sfondo, l’altra di urgenza.

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La prima riflessione, sullo sfondo del regime democratico e le sue aporie.

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L’espressione maggiormente coerente della democrazia è l’attribuzione ai membri del popolo di un potere diretto (oggi espresso nel referendum). Dove, appunto, ciascuno vota come desidera e a prescindere dalla sua qualifica soggettiva, ma solo sulla base della sua unicità (una testa – un voto).

Con termini che oggi denunceremmo politically uncorrect, nella “Filosofia della politica” il Rosmini scorgeva nel destino delle “masse” al potere, «come è nella forma democratica», la spinta diretta dello stato «alla sua ultima rovina» e il Capograssi delle “Incertezze sull’individuo” denunciava le falle aporetiche della democrazia nel suo non essere in grado di coagulare la matrice atomistica dell’individuo (secondo l’insegnamento di Locke) e quella solidaristica della communitas personarum (secondo l’insegnamento di San Tommaso). D’altra parte, il ginevrino (et pour cause) Rousseau confidava di aver penetrato il segreto dei governi e di averlo svelato ai popoli, «non perché ne scuotessero il giogo, cosa a loro affatto impossibile, ma affinché tornassero ad essere uomini (liberi) nella costrizione».

Il popolo svizzero forse è riuscito ad esercitare il potere e a sottrarsi alla costrizione del governo (e dei sondaggi), ma per questo è stato “rimproverato” dai governanti (di tutta Europa) e dai mezzi di comunicazione (del mondo intero). Per qual motivo, se ha incarnato la massima espressione concreta di un regime democratico?

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La seconda riflessione, sull’urgenza del valore della “persona” e sul ruolo delle “minoranze” (cattolica, buddista, mussulmana o atea, poco rileva) negli odierni ordinamenti liberali.

In sunto: in un regime democratico, come è possibile tutelare i desiderata, ma soprattutto l’identità delle minoranze se il criterio di decisione è fondato sul principio di maggioranza?

Qui la questione diventa urticante non tanto perché ha l’intento di sfaldare una forma di governo che ha già mostrato le sue debolezze lungo il corso di tutto il secolo XX, ma quanto perché permette di affermare ancora una volta un concetto troppe volte dimenticato e oggi fondamentale più che mai nell’era della globalizzazione: soprattutto nel III millennio non possiamo più cogliere (qualora l’avessimo mai realmente fatto) la “maggioranza” come garanzia di giustizia, di virtù, di autarchia… in sunto di “comunità politica”.

In quanto tale, la comunità è composta di persone e non di “voti” e in mezzo alla quale, ciascuna persona vale di per sé e non in quanto componente della maggioranza o di una delle varie minoranze; per la quale, da ultimo, la libertà di espressione di ciascun membro (e tra tutte la libertà religiosa) costituisce il senso stesso dell’essere comunità.

Ecco che la democrazia, come ogni altro tipo di regime, non deve essere confuso con il principio aggregante un insieme di persone, perché non potrà mai assurgere a tale qualifica. Ma v’è di più. Il governo del popolo non è necessario né sufficiente alla costituzione della comunità, poiché la democrazia non può non presupporre la reale esistenza di una comunità come condizione del suo pieno funzionamento.

Non può non tornare alla mente, quindi, il lucido monito di Francesco Gentile: «quando si prende il regime per origine e fine della comunità, si determina il vuoto politico, cioè si scivola verso un governo impotente e una società misfatta».

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Per una prima conclusione interlocutoria, possiamo confidare che le pacifiche valli svizzere non si siano rese conto della portata del voto degli uomini che le abitano. Poco importa. Quel che rileva è che nella nostra epoca sempre più multiculturale, per un “bene comune” sostanziale urge una riflessione sul rapporto tra regime democratico, identità delle minoranze e libertà della persona, poiché la condizione efficiente delle formule tecniche è sempre e solo fornita dalla coscienza critica della natura di una comunità.

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