Il cosiddetto “scudo fiscale” può essere analizzato da molteplici prospettive, da quella etica a quella giuridica, da quella economica a quella del bilancio dello stato. La prospettiva scelta in queste brevi riflessioni è quella giuridica e, in particolare, quella di un giurista che si occupa del fenomeno tributario.

Rischiando forse un eccessivo zelo pedagogico, intendo prendere avvio da quello che, unanimemente, è considerato il fondamento dell’imposizione tributaria. Qualunque manuale di diritto tributario qualifica il pagamento dei tributi come un “dovere costituzionale” che trova riconoscimento nel congiunto disposto dell’art. 53, comma 1, e dell’art. 2 della Costituzione. Più esattamente, tutti devono pagare i tributi in ragione dei redditi prodotti o degli altri fatti economici individuati dalle leggi. I profili di maggior interesse, per il caso concreto, che discendono dal dovere costituzionale tributario sono riducibili a due, tra loro strettamente correlati. Da un lato, il dovere di pagare i tributi ha carattere di generalità; dall’altro lato, tale generalità si traduce nel vincolo per cui tutti i soggetti nella medesima condizione (economica) devono contribuire in eguale misura. Quest’ultimo canone, quello dell’eguaglianza, costituisce il valore fondamentale cui è informato il fenomeno tributario nelle democrazie costituzionali moderne. È sufficiente ritornare agli albori e ricordare le prime carte costituzionali delle ex colonie inglesi della Pennsylvania (1776) e del Maryland (1776) e all’art. 13 della Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789) per trovare una sicura conferma di tale conclusione.rn

Il c.d. “scudo fiscale”, introdotto e disciplinato dall’art. 13-bis del d.l. n. 78 del 2009 (come convertito dalla l. 102 del 2009) ed oggetto di ulteriori integrazioni in discussione in Parlamento, è un’“imposta straordinaria” sulle attività finanziarie e patrimoniali detenute all’estero in violazione degli obblighi fiscali italiani (comma 1). L’imposta si applica in misura pari al 50 per cento del rendimento di tali attività che è, in via presuntiva, fissato al 2 per cento annuo per cinque anni (comma 2). Effetto sostanziale di tale disciplina è che tale imposta straordinaria sostituisce ed estingue non solo violazioni di obblighi fiscali formali (dichiarazioni, ecc.), ma anche l’ordinaria imposizione sui capitali trasferiti all’estero. Lo scudo fiscale, quindi, inibisce ogni azione di accertamento e recupero delle imposte evase sui capitali trasferiti all’estero, in questo differenziandosi in maniera netta rispetto alle simili forme di disclosure inglesi e statunitensi.

Come è immediatamente intuibile, nelle ipotesi di evasione fiscale, tale forma di imposizione straordinaria presenta profili di contrasto sia con il requisito della generalità dell’imposizione sia con quello di eguaglianza. Rispetto al primo, l’imposta straordinaria rappresenta una deroga rispetto al regime impositivo ordinario ma, soprattutto, il suo campo di applicazione è limitato alle sole attività finanziarie e patrimoniali detenute all’estero. Il profilo di maggiore rilevanza, tuttavia, riguarda il differente trattamento di situazione contributive eguali. Lo “scudo fiscale” discrimina fra situazioni interne ed estere. In particolare, l’evasione attuata attraverso il trasferimento di capitali all’estero è assoggettata ad un regime fiscale diverso e decisamente più favorevole rispetto alle medesime situazioni interne. Più semplicemente: il contribuente che abbia evaso le imposte trasferendo all’estero il proprio patrimonio è tenuto al pagamento di una imposta straordinaria pari al 5 per cento – supponendo una detenzione pari a 5 anni, l’aliquota diminuisce per periodi inferiori di detenzione – del rendimento del capitale investito, senza l’applicazione delle sanzioni, degli interessi, con garanzia dell’anonimato e di estinzione di una serie di reati penali; all’opposto, il contribuente che abbia investito i propri capitali in Italia è tenuto al pagamento delle imposte in misura ordinaria – generalmente secondo aliquote progressive – con l’aggiunta, in caso di evasione, delle sanzioni e degli interessi (oltre, all’eventuale rilevanza penale dei fatti). Se questa ricostruzione è corretta, è evidente il vulnus arrecato al principio costituzionale di eguaglianza tributaria, che autorevole dottrina individua quale criterio di giustizia che informa l’intero fenomeno fiscale nell’ordinamento italiano. Lo “scudo fiscale” allenta, per mano legislativa, l’efficacia del dovere costituzionale tributario e, poiché esso costituisce uno dei fondamenti della Repubblica italiana, i valori costituzionali posti alla base della convivenza ordinata e civile. Il vulnus è, quindi, ai valori democratici, come ha insegnato e testimoniato Ezio Vanoni.

Questa non è la posizione della giurisprudenza costituzionale, che, secondo un orientamento consolidato, ritiene che i “condoni” non pongano problemi di differente trattamento fiscale (ad es., Corte cost., sentenza n. 33 del 1981; n. 172 del 1986). Tuttavia, lo “scudo fiscale” non è un “condono” come gli altri, poiché discrimina la medesima situazione in ragione del luogo di detenzione delle attività finanziarie e patrimoniali. Non tutti i contribuenti, quindi, possono avvalersi dello “scudo fiscale”, ma solo quelli che, oltre alle norme fiscali, hanno violato anche quelle sul monitoraggio dei movimenti di capitale trasferendo i propri capitali all’estero, al riparo dell’azione accertatrice dell’amministrazione italiana. Non si può, quindi, sostenere che la facoltà di “condonare” sia “egualmente concessa a tutti i contribuenti”.

Si potrebbe obiettare che il principio di eguaglianza (tributaria) non è assoluto, bensì soffre di giustificazioni, primariamente dirette a tutelare valori costituzionali di pari rilevanza.

L’argomento comunemente impiegato, sia dal mondo politico sia dalla Corte costituzionale, è quello della necessità di procurare altre entrate (Corte cost., n. 33 del 1981). L’interesse fiscale, ovverosia l’interesse alla generale riscossione delle imposte, ha rilevanza costituzionale (Corte cost., n. 45 del 1963). Tuttavia, tale interesse non può in alcun modo derogare i criteri di giustizia fiscale fissati dalla Carta costituzionale e, in particolare, il principio dell’eguaglianza tributaria. Questo è (o dovrebbe essere) il limite invalicabile per il legislatore ordinario. Come si è cercato di dimostrare, tuttavia, con lo “scudo fiscale” il legislatore altera arbitrariamente e irragionevolmente il riparto del carico fiscale fra i consociati. Ciò per due ragioni. La misura dello “scudo fiscale” è fissata in maniera significativamente inferiore rispetto alle aliquote ordinarie e senza alcun razionale collegamento con queste ultime. In secondo luogo, non è ammesso il rimborso delle imposte per chi ha già pagato in misura maggiore e non può, quindi, sfruttare lo “scudo fiscale”. Diverso sarebbe il giudizio nel caso in cui il rimpatrio delle attività finanziarie e patrimoniali detenute all’estero in evasione delle imposte italiane fosse assoggettato all’imposizione ordinaria, con esclusione delle sanzioni e degli interessi. In questo modo, sarebbe agevolata la riscossione preservando il valore costituzionale di giustizia fiscale.

Si può, infine, ritenere che la funzione dello “scudo fiscale” sia quella di incentivare l’economia italiana. Ma tale funzione non è coerentemente perseguita dal testo del provvedimento che non richiede, se non in casi limitati, l’effettivo rimpatrio delle attività estere né l’investimento in intraprese economiche nazionali.

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