Il 29 aprile 2009 il Senato ha approvato in via definitiva la legge delega sul c.d. “federalismo fiscale” che è stata accolta dal mondo politico, quasi unanimemente, come una “rivoluzione” delle relazioni fra centro e periferia, fra Stato e territorio. Al di là degli dei toni trionfalistici che ne hanno accompagnato l’approvazione e che, sicuramente, sono riferibili al metodo adottato, alcune ombre riguardano i contenuti di tale provvedimento.

Prendiamo avvio dallo strumento normativo. Il Governo, non diversamente dal precedente ddl Prodi-Padoa Schioppa, ha scelto la legge delega, ovvero ha scelto di conferire all’esecutivo il potere di scrivere le regole del “federalismo fiscale” conformemente ai principi fissati dal Parlamento. La prima osservazione, quindi, è che il c.d. “federalismo fiscale” è ancora tutto da definire e che solo i decreti delegati ne determineranno compiutamente i lineamenti ed i confini. La nota negativa è che i principi stabiliti dal Parlamento non possono, in molti casi, qualificarsi come tali. Tali principi hanno, perlopiù, una valenza meramente politologica o sono reiterazioni di principi costituzionali. In questo senso, la delega conferita al Governo appare priva di solidi confini ed ampiamente lasciata alla discrezionalità dell’esecutivo.rn

Passiamo al contenuto. Con l’espressione “federalismo fiscale” si designano comunemente i poteri degli enti territoriali (diversi dallo stato o dalla federazione) di determinare autonomamente le proprie spese ed entrate. Tale potere, è stato ampiamente evidenziato, appare strumentale a quello di fissare autonomamente l’indirizzo politico da parte di tali enti.

Assumendo questa definizione come punto di partenza, si deve rilevare che la vera “rivoluzione” della legge delega riguarda l’autonomia di spesa. Infatti, la legge delega prevede, in un periodo transitorio di cinque anni, l’abbandono del criterio della spesa storica ed il passaggio al fabbisogno standard ed alla capacità fiscale. Le spese e le funzioni fondamentali delle regioni e degli enti locali saranno dunque finanziate in ragione di costi identici per tutte le 15 regioni a statuto ordinario. È bene ricordare che tale operazione prevede, in realtà, la fissazione di due distinti elementi. Da un lato, l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni comuni a tutto il territorio nazionale, operazione, questa, assai delicata. Dall’altro lato, la quantificazione economica unitaria di tali prestazioni. Tali compiti sono stati rimessi al Governo nell’esercizio del potere delegato, senza indicazione di criteri. Per gli enti locali (comuni, città metropolitane e province) non sono nemmeno state indicate la funzioni fondamentali, che troveranno posto nella futura carta delle autonomie.

Decisamente più complessa la specificazione dell’autonomia di entrata delle regioni e degli enti locali. La novità “storica” è rappresentata dalla centralità delle regioni nel sistema finanziario, posto occupato fino alla legge delega dagli enti locali. La Costituzione impone che il finanziamento di regioni ed enti locali sia basato su tre fonti: tributi ed entrate proprie; compartecipazioni a tributi dello stato e fondo perequativo (art. 119, comma 2, Cost.). Queste due ultime fonti ricadono nell’ambito della legislazione statale, nel senso che sono determinate e possono essere modificate solo dallo stato.

Ricadono nell’autonomia delle regioni e degli enti locali, dunque, solo i tributi e le entrate proprie. Delle seconde la legge delega si limita ad affermare che riguardano i servizi prestati dagli enti ed hanno natura corrispettiva.

Più articolato il discorso per i tributi perché, come noto, hanno carattere autoritativo. In primo luogo, si deve distinguere la posizione delle regioni rispetto a quella degli enti locali. Solo i primi, infatti, hanno potestà legislativa, strumento essenziale per poter imporre tributi ai sensi dell’art. 23 Cost. L’autonomia finanziaria dei comuni, delle città metropolitane e delle province è quindi sempre dipendente dallo stato ovvero, novità per il nostro sistema tributario, dalle regioni (art. 12, comma 1, lett. g) della legge delega). La legge delega prevede che ai comuni sia assegnata un’imposta sugli immobili, ad eccezione delle c.d. prime case, ed alle province un’imposta connessa al trasporto su gomma. In aggiunta, entrambi gli enti potranno introdurre tributi di scopo, ovvero connessi alla realizzazione di uno specifico scopo istituzionale.

Per le regioni, diversamente, con l’espressione tributi propri si identificano tre diversi strumenti: (1) i tributi eteronomi, ovvero istituiti e disciplinati per intero dallo stato; (2) le addizionali su tributi statali, istituite e disciplinate per intero dallo stato; (3) i tributi propri in senso stretto. Rispetto agli strumenti (1) e (2) alle regioni sono assegnati poteri di intervento limitati alle aliquote ed alle agevolazioni fiscali.

Gli aspetti negativi relativi all’autonomia tributaria sono essenzialmente due. In primo luogo, la legge delega non assegna espressamente alcun tributo alla regione. Il provvedimento non si cura, infatti, di riservare alcun presupposto (i.e. fatti economici) specifico alle regioni. In aggiunta, la legge prevede il divieto di doppia imposizione, ovvero proibisce alle regioni l’istituzione di tributi sui medesimi presupposti già assoggettati dallo stato. In ragione del fatto che i presupposti economici da assoggettare ad imposizione sono limitati (reddito, patrimonio, consumi e trasferimenti) e che sono quasi integralmente occupati dalla legislazione statale, lo spazio per l’autonomia tributaria delle regioni appare decisamente limitato, per non dire nullo. In questo quadro, residuano i tributi c.d. para-commutativi, ovvero istituiti sulle prestazioni erogate dalle regioni (in particolare, sanità, assistenza ed istruzione). La preoccupazione che queste condizioni creano è uno spostamento dell’equilibrio del sistema dalla fiscalità contributiva alla fiscalità commutativa poiché gli enti meno virtuosi e quelli con minore capacità fiscale saranno costretti a ricorrere a tali forme impositive per coprire gli eventuali disavanzi finanziari prodotti nell’esercizio delle proprie funzioni. In termini più semplici ed immediati, il rischio è lo spostamento dalla fiscalità di tutti o di massa alla fiscalità che colpisce esclusivamente gli utenti dei servizi regionali.

Se da un lato appare pienamente valorizzato il criterio di corrispondenza fra “responsabilità finanziaria e amministrativa” territoriale dettato dalla legge delega, dall’altro lato, è evidente che tale soluzione produce una tensione rispetto al dettato dell’art. 53 Cost. Più precisamente, i costi economici della cattiva gestione amministrativa regionale non si rifletteranno sulla generalità dei consociati della regione, bensì esclusivamente nei confronti dei soggetti destinatari delle funzioni pubbliche regionali.

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