A seguito dell’approvazione da parte del Senato della risoluzione sul nuovo decreto di attuazione del federalismo municipale, la reazione immediata è che non si possa negare la buona volontà del Governo. Non certo (o non solo) perché la formulazione del testo è stata ulteriormente affinata, quanto perché si è cercato di dare risposta ad alcune delle richieste che avevano prodotto il voto contrario delle opposizioni in Commissione bicamerale.
rnProcediamo con ordine. Il decreto presenta un indubbio elemento di forza, compensato tuttavia da un altrettanto evidente “peccato originale”.

Il merito di questa riforma è quello di razionalizzare e semplificare il sistema della finanza comunale. La razionalizzazione è evidenziata sia dagli interventi sul versante tributario, sia su quello finanziario. A partire dal 2014, l’imposta municipale unica (imu) accorperà l’attuale tassazione patrimoniale degli immobili (ici) con quella reddituale (che sostanzialmente è un’imposizione para-patrimoniale, perché basata sulle rendite catastali e non sul reddito effettivo). Questa modifica, accompagnata da una buona dose di autonomia comunale sull’imu, vale buona parte della riforma.
Sulla stessa linea si pone anche la futura imposta municipale secondaria, che avrà a oggetto l’occupazione degli spazi pubblici e la pubblicità commerciale. Anche in questo caso, nulla di nuovo, ma un’opportuna razionalizzazione del sistema poiché verranno accorpati una serie di tributi e canoni diversi.
Sul versante finanziario, la riforma attua il disposto dell’art. 119 Cost. sostituendo ai trasferimenti statali la compartecipazione a una serie di tributi immobiliari e all’iva nonché un fondo perequativo. In realtà, con riferimento a quest’ultimo, i fondi perequativi sono due. Il primo, quello sperimentale di riequilibrio, sarà in vigore dal 2011 fino all’introduzione del fondo perequativo definitivo. Rispetto al fondo sperimentale di riequilibrio, presumibilmente di tipo orizzontale perché alimentato attraverso le risorse devolute ai comuni, il decreto tralascia un elemento politico di fondamentale importanza: il livello della perequazione delle funzioni non fondamentali. La vera novità del decreto, e, in termini politici, una risposta alle opposizioni, è l’inserimento dell’art. 13 che detta le modalità di adozione e i criteri di alimentazione del fondo perequativo definitivo. Nella versione precedente, nessun criterio era contenuto nel decreto bensì un semplice rinvio a un futuro decreto legislativo.

Questi elementi positivi, come anticipato, sono controbilanciati dal “peccato originale”.
La futura imu, come è noto, esclude dall’imposizione l’abitazione principale. Se per il contribuente questa esclusione costituisce un fatto positivo, non altrimenti può dirsi per la finanza comunale. Per almeno due ragioni. La prima è che la misura limita l’autonomia tributaria comunale perché si tratta di un vincolo imposto dallo Stato. Essa è quindi incoerente con l’idea di federalismo fiscale poiché il livello di governo superiore interferisce nelle scelte di politica fiscale dell’ente cui spetta il gettito del tributo. La seconda incoerenza rispetto agli obiettivi prefissati è l’affievolimento (se non addirittura il venir meno) dello slogan “vedo, pago e voto”. A vedere e votare, infatti, saranno i residenti nel comune che in misura prevalente non pagheranno il tributo!
Si tratta di un “peccato originale” perché l’esenzione ha radici nella campagna elettorale del 2008, è stata quindi ribadita dalla legge delega sul “federalismo fiscale” e, inevitabilmente, estesa all’Imu.
Analoghe considerazioni possono essere estese anche all’imposta di soggiorno. Anche in questo caso, non si valuta negativamente l’imposta in sé, bensì in termini di coerenza con il “federalismo fiscale”. E anche in questo caso è facile concludere che, poiché a pagare saranno prevalentemente soggetti non residenti nel comune, lo strumento impiegato risente della contraddizione rispetto all’obbiettivo perseguito.
Trovo singolari, a questo proposito, le affermazioni del Ministro Calderoli che, riferendosi proprio all’imposta di soggiorno, ha dichiarato che il decreto statale mira a produrre un effetto “calmierante delle potenzialità che in astratto la Costituzione assegna alle Regioni”. Senza giri di parole, il decreto restringe l’autonomia delle Regioni al fine di perseguire l’obiettivo del controllo della pressione tributaria.
In conclusione, pur valutando il lavoro fatto in termini positivi, il decreto soffre vistosamente della contraddizione fra autonomia e invarianza della pressione fiscale. La prima significa libertà, la seconda controllo dal centro.

Articolo pubblicato sul Riformista in data 26/2/2011

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