In questi giorni si fa un gran parlare di federalismo fiscale, spesso solo per riempire pagine di quotidiani altrimenti vuote, altre volte per dare conto dello stato di un governo allo sbando che dalla riforma dovrebbe trovare nuova linfa vitale.
rnCerchiamo di liberarci da tutti questi orpelli estranei alla questione e di concentrare lo sguardo sullo stato dell’arte: cosa è stato fatto e cosa resta da fare. Se partiamo da quello che resta da fare, il quadro è desolante perché, a poco più di 4 mesi dalla scadenza, il federalismo fiscale rimane ancora solo sulla carta. Sono stati approvati in via definitiva i soli decreti sul c.d. federalismo demaniale, sullo status di Roma capitale e sui costi standard di comuni e di province. Sbaglierebbe comunque chi pensasse che, anche in questi ambiti, qualcosa è stato realizzato, perché i decreti citati devono ancora essere attuati e, spesso i problemi nascono proprio dall’attuazione concreta dei provvedimenti.

Ma ancor più desolante appare quello che è stato fatto. I provvedimenti su cui si basa il federalismo fiscale sono sostanzialmente tre. Due di questi riguardano, rispettivamente, l’assetto della finanza delle Regioni e degli enti locali. L’ultimo, l’armonizzazione delle regole relative alla formazione dei bilanci pubblici.
Tralasciamo quest’ultimo provvedimento, non perché sia irrilevante, all’opposto fondamentale per poter misurare in termini economici gli effetti del federalismo, bensì perché meramente strumentale rispetto alle regole finanziarie e tributarie.
Concentreremo l’attenzione, diversamente, sui provvedimenti che più direttamente riguardano le future regole finanziarie, distinguendo tre punti: l’autonomia tributaria, la perequazione e i costi standard.
1) Abbiamo già rilevato – sia su Benecomune.net sia nel libro Il federalismo fiscale – che, nell’attuazione della legge delega, determinante sarebbe stato il grado di autonomia tributaria concessa agli enti territoriali. In altre parole, il potere di Regioni, Province e Comuni di determinare (almeno una parte del)le proprie entrate. L’obiettivo della riforma, si è sentito ripetere fino alla noia, è quello di responsabilizzare la spesa pubblica locale e la resposanbilizzazione passa attraverso il controllo delle entrate.
Ebbene, la tanto decantata autonomia tributaria è come un animale mitologico, di cui tutti dicono di aver letto e sentito parlare ma nessuno ha mai visto. E che probabilmente non vedremo nemmeno con l’attuazione del federalismo fiscale.
La bozza di decreto sulla fiscalità regionale attribuisce a tali enti, quali tributi propri (derivati), l’Irap e l’addizionale irpef, strumenti che non costituiscono certo una novità rispetto all’attuale assetto. La novità è che la legge statale irrigidisce i poteri delle Regioni, limitandoli di fatto alla sola variazione dell’aliquota. Le Regioni virtuose, dunque, non potranno agevolare determinati settori – penso, a esempio, alle organizzazioni non profit – né determinati soggetti – penso, a esempio, alle famiglie numerose. Lo stesso accade con l’imu (imposta municipale propria) che, a regime sostituirà l’attuale ici. Rispetto a questa imposta è curioso notare che si procede in senso opposto alla responsabilizzazione: pagheranno questa imposta in prevalenza i possessori di seconde case e le persone giuridiche, ovverosia soggetti che non possono esercitare alcun controllo sul governo del Comune.
2) La seconda parolina magica del federalismo è la perequazione. Se l’autonomia tributaria è usata al Nord per rabbonire i sempre pronti marciatori su Roma, la perequazione è la parola d’ordine da Roma in giù. Anche di questa, tuttavia, se ne parla senza sapere esattamente cosa sarà. O meglio, sappiamo che la perequazione servirà a integrare le risorse dei territori più poveri. Ma non sappiamo come, in quale misura e secondo quali criteri. Ovvero, non sappiamo se la Campania avrà le medesime risorse pro capite della Lombardia, né se Reggio Calabria disporrà di eguali risorse rispetto a Milano. Sappiamo però che la perequazione dovrebbe assicurare un gettito sufficiente alla copertura delle funzioni fondamentali, ma non conosciamo, almeno per gli enti locali, tali funzioni. Si consideri anche che anche tale previsione appare contraddittoria rispetto alla responsabilizzazione, poiché gli amministratori locali hanno interesse a far emergere un basso gettito del territorio – e quindi non contrastare l’evasione fiscale – poiché in tal caso le risorse saranno integrate dal fondo perequativo statale in misura maggiore.
3) Il successo della riforma è basato sui costi standard. Peccato, ancora una volta, che le bozze circolate dei decreti né il decreto già approvato relativo agli enti locali individuino tali costi. I provvedimenti citati contengono le metodologie di massima di tali costi, ma i numeri sono affidati a ulteriori provvedimenti da assumere a livello regolamentare. È facile notare come tale soluzione aumenti l’incertezza e l’indeterminatezza sul punto fondamentale della riforma.
In queste note sintetiche, ho cercato di dimostrare che: a) il federalismo resta da costruire; b) le bozze dei provvedimenti in circolazione non costruiscono certamente un modello federale, ma si limitano a ridefinire il sistema finanziario degli enti territoriali al fine di ridurne la spesa pubblica.

I contenuti di questo articolo sono stati pubblicati sul Riformista del 21/01/2010

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