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Non si può chiamare riforma il tentativo di intervenire unilateralmente, prescindendo dal dibattito politico e dal confronto aperto con tutte le parti sociali coinvolte. Non si può chiamare riforma un intervento che prende in considerazione soltanto alcuni aspetti particolari della realtà sulla quale esso dovrebbe produrre i suoi effetti. Queste considerazioni assumono un rilievo significativo allorché la realtà presa in considerazione è quella del mercato dei rapporti di lavoro (o meglio, di una parte di esso).

Realtà controversa, come sappiamo, comunque, al di là delle legittime posizioni, soggetta alle rapide trasformazioni imposte dal mutamento dei contesti della produzione e della concorrenza, ivi compresa quella sleale, o sommersa. Ciò nonostante, credo sia possibile affermare che quando questi elementari requisiti di dialogo e di sistematicità non vengono rispettati sia giusto, anzi giustissimo, diffidare della qualità delle iniziative del legislatore. Del resto, il passato recente insegna: l’introduzione, calata dall’alto, di eterogenee modalità di instaurazione del rapporto di lavoro ha realizzato, non solo la più totale sottovalutazione di molti requisiti e di molti assetti costituzionali, ma anche e soprattutto, una epocale frammentazione degli interessi della categoria del lavoro: una impari concorrenza tra i lavoratori stessi, a discapito di una, sempre auspicata, uniformità delle rivendicazioni e, soprattutto, a discapito del principio giuslavoristico del contraente più debole. Parlate con un lavoratore in somministrazione o a progetto, solo per fare due esempi concreti. Loro ti faranno capire, con parole semplici, che è inutile nascondere le responsabilità storiche di molti dei soggetti sociali che, a vario titolo, si occupano del mercato del lavoro.

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Ancora una volta, come afferma Pietro Ichino, dobbiamo osservare, con imparzialità, una mela spaccata in due: da un lato, un lavoro molto protetto, nello spazio e nel tempo; dall’altro, modalità, vissute sulla pelle delle persone, per le quali i diritti e le prerogative a tutela della dignità del lavoratore assumono i contorni di una vera e propria chimera. Queste sono asimmetrie di mercato che generano inaccettabili disuguaglianze all’interno dei singoli contesti di lavoro, così come nell’ambito del mercato sui generis.
Si tratta di un gioco perpetuato per indirizzarsi al ribasso della media delle condizioni? Di una strategia disgregatrice, per alcuni, e di una difesa delle posizioni ‘tradizionali’, per altri? Anche se non sono nella condizione di fornire risposte esaustive, credo sia giusto non omettere questo tipo di riflessione che attiene alle capacità di un tessuto civile di promuovere delle buone pratiche, delle soluzioni valide erga omnes, ovvero delle riforme.
Quel che è certo, infatti, è che con il trascorrere degli anni, il carattere ‘indisponibile’, o meglio intoccabile, di alcune delle prerogative del lavoro ‘tradizionale’ finisce col collidere con la pressoché totale sottovalutazione dei diritti costituzionali di una fetta consistente delle, più o meno, nuove generazioni. In sostanza, e a malincuore, dobbiamo affermare che questa circostanza sembra assumere i contorni della difesa di una corporazione, di un privilegio concesso, oltre che di matrimoni che, per il futuro, state pur certi, non molti saranno felici di contrarre. Per alcuni, quindi, le barricate e lo schieramento delle rappresentanze; per altri, invece, la retorica e il buonismo, oppure, un assordante ed inaccettabile silenzio. Come uscirne?
Al di là dei, seppur importanti, tecnicismi, il mio punto di vista è che non si possa prescindere dal chiamare le cose con il proprio nome, cercando di realizzarle per quello che sono o dovrebbero essere. Una riforma del mercato del lavoro è, dunque, auspicabile, purché essa assolva gli elementari criteri del dialogo, ovvero del confronto politico e della concertazione, e della sistematicità, ovvero della seria considerazione dei mutati contesti produttivi e, in virtù di ciò, della necessità di perseguire l’uguaglianza delle condizioni e delle tutele di tutti i lavoratori, nel più ampio rispetto del disegno lavoristico contenuto nella nostra Carta fondamentale. Ancora, dal mio particolare (ancorché parziale) punto di vista, se il XX secolo si è contraddistinto per un forte incremento dei diritti interni al singolo contratto (individuale e collettivo), in virtù di una condizione stabile e condivisa del lavoro e dell’azione sindacale, le sfide, le tendenze e le tematiche cogenti del XXI secolo sembrano configurarsi, sempre più, nel nesso che si instaura tra il singolo lavoratore ed il mercato del lavoro nel suo complesso, rendendo manifesta, non solo la necessità di mantenere le condizioni della dignità durante la esecuzione della singola prestazione lavorativa, sia essa di natura autonoma o subordinata, ma anche l’importanza di configurare una serie di diritti soggettivi in grado di innovare la capacità negoziale, di implementare la forza contrattuale nel corso della vita, così come di riconoscere giuridicamente gli eterogenei significati contenuti nel concetto stesso di lavoro [Villa, nelMerito.com 12/11/09].
Diversamente, come possiamo notare, si continua a nuotare, da un lato, nella direzione della difesa irriducibile di categorie sociali parziali e/o di concetti vetero-fordisti, dall’altro, approfittando della confusione, nella direzione di una profonda deregolazione dei rapporti di lavoro in assenza di un bilanciamento, di contropartite in termini di sicurezza sociale e di tutela del capitale umano, quindi, in assenza di prospettive strategiche unificanti, che possano funzionare in quanto sintesi condivisa. Prospettive che dovrebbero essere in grado di realizzare una dialettica seria sul futuro delle nuove generazioni e, più in generale, su un’economia reale antropologicamente sostenibile. Infine, ritengo molto importante sottolineare una dinamica che andrebbe coltivata con maggiore determinazione: dal mio punto di vista, infatti, interessarsi alla modernizzazione del mercato del lavoro, può voler dire, anche, cercare di promuovere una qualche forma di consapevolezza nel senso comune, non lasciando che questo lavoro sia realizzato soltanto da una cerchia ristretta di incaricati ed eletti.
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