È aperto il confronto fra chi spera che il disegno di legge del governo aiuterà a creare finalmente nuovi posti di lavoro e chi teme invece che non siano state affrontate le ragioni profonde della fuga dall’Italia di investimenti e attività produttive. Un risultato sembra però certo: alla fine decidono sempre i giudici. È senz’altro riduttivo e ingiusto discutere della «riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita» presentata dal governo concentrandosi sulla nuova disciplina della «flessibilità in uscita». Era tuttavia ampiamente prevedibile che ciò sarebbe avvenuto e a maggior ragione dispiace constatare che l’esito potrebbe infine scontentare tutti.

La scelta fatta sul punto più contestato, ovvero i licenziamenti per motivi «oggettivi o economici», rimette alla resa dei conti ogni decisione nelle mani dei giudici, che dovranno pronunciarsi prima sulla reale esistenza di tali motivi e poi, nel caso di una risposta negativa su questo punto, sulle vere ragioni del licenziamento. Si avranno così tre possibili soluzioni, ciascuna delle quali comporta difficoltà che dovrebbero probabilmente indurre ad una maggiore prudenza gli schieramenti contrapposti.

1) Il giudice riconosce la validità della motivazione. Si tratta, il più delle volte, di una situazione dolorosa anche per l’azienda, perché quasi nessuno manda via una persona con la tranquillità con la quale si sospenderebbe una fornitura di materie prime. E si pone proprio per questo il problema della garanzia della continuità del lavoro, se non del posto di lavoro. Ma cosa si deve intendere per motivi economici? Solo una diminuzione delle vendite o anche una ristrutturazione che non è necessariamente il contraccolpo di una crisi e punta piuttosto ad anticiparla o comunque a riposizionare l’azienda sul mercato? È possibile avere i conti in ordine e invocare comunque questa motivazione? Da una parte c’è il principio, di rilievo costituzionale, della libertà di iniziativa economica, con la conseguente autonomia nella definizione dei criteri di gestione d’impresa. Dall’altra c’è l’orientamento, consolidato anche in alcune recenti sentenze della Cassazione, a non accettare soppressioni di posti di lavoro meramente funzionali ad incrementi di profitto. Nel testo l’indennizzo viene esplicitamente presentato come la sanzione prevista a seguito dell’accertamento dell’inesistenza del motivo addotto, ma è evidente che l’impatto del provvedimento sui lavoratori è ben diverso a seconda di come si interpreta la motivazione economica.

2) Il giudice accerta l’inesistenza del giustificato motivo oggettivo addotto e riconduce il licenziamento a ragioni discriminatorie o disciplinari, applicando la relativa tutela. E dunque, con una radicale retromarcia rispetto a quelle che erano state presentate come le intenzioni iniziali del governo, potendo disporre non solo un’indennità risarcitoria, ma la reintegrazione.

3) Il giudice accerta l’inesistenza dei motivi oggettivi ma non riconosce ragioni discriminatorie o disciplinari nel provvedimento. In questo caso e solo in questo caso, come ho sottolineato, risulterebbe obbligata la strada della indennità risarcitoria onnicomprensiva, per un importo modulato fra le 15 e le 27 mensilità. Ma quali ragioni si possono allora ipotizzare che non siano né economiche né disciplinari né discriminatorie? Il venir meno del “rapporto fiduciario”? L’interpretazione in senso “largo” delle motivazioni economiche? Il governo scrive che il nuovo testo «prefigura, fondamentalmente, l’articolazione fra tre regimi sanzionatori del licenziamento individuale illegittimo». Qualcuno potrebbe dire – e sta infatti dicendo – che fissa piuttosto il prezzo al quale un lavoratore può essere licenziato quando non si possono invocare i tradizionali criteri di legittimità del provvedimento. Appare davvero auspicabile un supplemento di chiarezza.

Il prezzo ad alcuni già appare troppo alto, mentre ad altri appare semplicemente inaccettabile che si possa fissare un prezzo. D’altra parte, il confine fra autonomia delle scelte imprenditoriali e discriminazione, per citare solo l’esempio più facile e immediato, rischia di diventare troppo sottile per costituire una demarcazione giuridicamente inequivocabile. Insomma: in Italia c’è bisogno di dare alle imprese più ossigeno e più coraggio per assumere di più in forme meno precarie, ma questa correzione dell’articolo 18 potrebbe paradossalmente rischiare di aumentare cautele e contenziosi, soprattutto se si lasceranno nell’ambiguità i parametri «oggettivi» di legittimità di un licenziamento. Poco rassicurano la speranza del governo che le parti possano accordarsi per «una rapida procedura di conciliazione» e la promessa della «introduzione di un rito speciale specificamente dedicato a tali controversie». Appunto perché sono controversie aspre, difficili e dall’esito incerto.

La lettura della sentenza della Corte di appello di Potenza sull’episodio dei tre lavoratori di Melfi licenziati dalla Fiat è da questo punto di vista esemplare. I giudici di secondo grado ricordano che il giudice dell’opposizione, a differenza di quello della fase sommaria, «aveva ritenuto di escludere ogni intento persecutorio o antisindacale da parte dell’azienda ed a carico dei lavoratori licenziati, evidenziando che i provvedimenti di recesso erano stati la logica conseguenza di comportamenti che, travalicando i limiti dello sciopero, erano sconfinati nell’aperta violazione dei più comuni obblighi di diligenza, fedeltà, obbedienza, correttezza e buona fede e nella plateale negazione della gerarchia aziendale». Arrivano però alla conclusione opposta, perché a loro avviso «i licenziamenti di cui trattasi rappresentano nulla più che misure adottate per liberarsi di sindacalisti che avevano assunto posizioni di forte antagonismo, con conseguente immediato pregiudizio per l’azione e la libertà sindacale: nel che è dato ravvisare un quid pluris degli estremi propri della condotta antisindacale». Sono questo clima e questa incertezza che fanno più male al paese. La Germania è lontana anche perché fatichiamo a ritrovare il senso di una passione e di una responsabilità condivisi nei luoghi di lavoro, nelle scuole e nelle università, nella misura dei doveri che corrispondono ai diritti. Per far questo, però, la “tecnica” non basta. Occorre una buona politica.

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