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di Stefano Semplici
rnPerché il governo e Nichi Vendola da una parte e il Presidente di Confindustria e Pier Luigi Bersani dall’altra hanno giudicato in modo tanto diverso le modifiche all’articolo 18 contenute nel disegno di legge di riforma del mercato del lavoro? Qualche perplessità è inevitabile, di fronte alla convinzione con la quale i primi hanno sottolineato nel testo il significato di una trasformazione profonda (valutata poi in modo radicalmente contrapposto), mentre i secondi hanno optato per una interpretazione di maggiore continuità, anche in questo caso per giungere a conclusioni chiaramente divergenti. Insomma: la possibilità del reintegro, che è stata restituita ai giudici, è una sorta di trompe-l’œil per ingentilire con un tocco di retorica il sostanziale svuotamento della precedente disciplina o ne garantisce al contrario la tenuta, con qualche inevitabile ma modesta concessione agli apostoli della flessibilità?

Ci troviamo in effetti in una situazione paradossale: il conflitto, più che su ciò che la politica dovrebbe realizzare, sembra essere su ciò che significano le parole usate dal governo per scrivere una legge, cioè un testo che più di ogni altro dovrebbe usare parole chiare e distinte, a meno che il legislatore non intenda rinunciare consapevolmente alla sua responsabilità e al suo potere, rimettendoli per intero all’interprete (il giudice).
Mi limiterò ad un esempio. Nel suo disegno di legge, il governo richiama la legge 4 novembre 2010, n. 183 e l’esplicito divieto in essa contenuto di estendere il controllo giudiziale «al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente». Lo richiama per rafforzarlo, con la precisazione che l’inosservanza di tale disposizione «costituisce motivo di impugnazione per violazione di norme di diritto». Qualcuno potrebbe forse concludere che costituirà «giustificato motivo oggettivo» di licenziamento, senza che vi sia neppure diritto ad indennizzo, una valutazione appunto di ordine tecnico, organizzativo e produttivo che: a) non è necessariamente correlata ad una situazione di crisi; b) non potrà in alcun modo essere impugnata davanti ad un giudice, perché il giudice che accettasse anche solo di esprimersi su tale richiesta agirebbe in violazione di norme di diritto. Non c’è dubbio che resta questo il punto cruciale della flessibilità “in uscita”, tanto è vero che il Presidente Monti si è preoccupato di precisare che l’ipotesi del reintegro vale per «fattispecie estreme e improbabili». È questo ciò che pensano e vogliono coloro che considerano una vittoria il reinserimento di questa possibilità? Il parlamento saprà indicare senza equivoci i criteri in base ai quali i giudici potranno pronunciarsi sulla manifesta insussistenza o sull’illegittimità, avendo il coraggio di mettere ordine nella selva della giurisprudenza di questi anni? Sono queste le domande che devono trovare una risposta, perché un testo ambiguo non servirebbe a nessuno. Non convincerebbe le imprese e non aiuterebbe i disoccupati e i giovani.
Non è casuale che l’attenzione di tutti sembri adesso concentrarsi sulla “flessibilità in entrata”. Il governo è partito sull’articolo 18 da una posizione chiara e certamente innovativa e ha poi cercato un punto di mediazione fra le posizioni e i contrasti profondi che si sono subito manifestati. Troppo spesso, tuttavia, i compromessi della politica guadagnano tempo ed evitano rotture insanabili al prezzo di parole che ciascuno si riserva di interpretare a modo suo. La «manifesta insussistenza» potrebbe alla fine valere la «dignità» di tante dichiarazioni sui diritti dell’uomo: si spera che consenta a tutti di approvare, nella consapevolezza che si continuerà poi a fare e pretendere cose fra loro del tutto incompatibili. Non è questa la buona politica che tutti invocano e che deve prima di tutto tornare al coraggio delle parole univoche, anche quando sono difficili. Perché solo la condivisione che si realizza intorno a parole univoche produce risultati concreti e duraturi. In caso contrario, il rischio è quello che la ricerca del compromesso si sposti semplicemente altrove. Ecco perché occorre continuare a tenere insieme la riflessione sulle condizioni di entrata e quelle di uscita. E diciamolo appunto con chiarezza: un compromesso sulle prime che dovesse servire a bilanciare l’equilibrio raggiunto sulle seconde avrebbe con ogni probabilità la conseguenza di tornare ad allargare la forbice fra le garanzie di alcuni (sempre meno numerosi) e la dolorosa precarietà di tanti altri. Non è di questo che abbiamo bisogno. Così come non abbiamo bisogno della promessa che basti qualche piccolo aggiustamento a far ripartire il paese. Ha ragione il Presidente Napolitano: l’imperativo della crescita sta diventando un’invocazione illusoriamente consolatoria e talvolta perfino fastidiosa.

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