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Il dibattito riguardante la flessibilità nel mercato del lavoro italiano si è nuovamente rinvigorito con l’emergere dei problemi connessi alla recessione economica ed alla conseguente tenuta occupazionale dei vari rami produttivi.

L’evidenza pubblica dell’inadeguatezza del sistema di protezione sociale – del welfare state – con riferimento alle moderne modalità di instaurazione del rapporto di lavoro, può sicuramente aiutarci ad evidenziare i difetti di quel modello culturale che ha considerato e considera la tutela del lavoratore moderno, in tutte le sue forme, quale inutile elemento di interferenza del legislatore nella competitività dei mercati, quand’anche di assistenzialismo superfluo e incentivante all’inattività del singolo. L’insufficiente attenzione della norma alla condizione dei cosiddetti precari durante i periodi di involontaria disoccupazione, infatti, è solo uno tra i tanti aspetti patologici figli di quel modello che, in questi ultimi anni, ha radicalmente favorito il passaggio da una funzione antropologica del diritto del lavoro (Supiot, 2003) – in cui l’intera situazione giuridica è configurata in vista del contraente più debole – ad una visione efficientistica di tale diritto orientata ad affermare la rilevanza della esecuzione della prestazione e della sua produttività, piuttosto che dell’individuo e della sua centralità. A ben vedere, tale modulazione della flessibilità ha, per i più e con grande rapidità, cominciato ad erodere alcuni dei principi più importanti che caratterizzano l’impianto lavoristico della nostra Costituzione – per esempio, gli artt. 1, 3, 31, 35, 36, 38 – e che si era soliti considerare come acquisiti (sull’art. 36 vedi: Villa, 22/07/2008, Benecomune.net).rn

      La costruzione di una sana critica di questa giovane, ma sempre più incisiva, configurazione del mercato del lavoro non può non cominciare a prendere seriamente in considerazione le differenze che intercorrono tra le innumerevoli tipologie contrattuali messe a disposizione dei datori di lavoro dalla normativa vigente (l. n. 196/97, abrogata dalla l. n. 30/2003 e successive modificazioni); per utilizzare una terminologia cara a Touraine, occorre ritornare sui fattori che determinano la «reproduction» del mercato del lavoro, prima ancora di evidenziare le effettive possibilità di una concreta «production», ovvero di una legittima azione votata al mutamento.

     La condizione soggettiva del lavoratore del terzo millennio – così come evidenziata da autori importanti quali Beck (1999) e Gallino (2007) – non credo possa essere brevemente liquidata con il termine precarietà. La comprensione della reale differenziazione nelle modalità di instaurazione del rapporto di lavoro è condizione indispensabile per comprendere la soggettività che da tale differenziazione prende forma. Il lavoro a progetto, a tempo determinato, di formazione o somministrato, dovranno necessariamente essere considerati, dalle dottrine come dalla politica, alla stregua di categorie autonome ed indipendenti una dall’altra, la cui natura e i cui meccanismi rappresentano un segmento di conoscenza ancora largamente inesplorato.

    I tipi di lavoro somministrato ed a progetto, per esempio, in egual modo contribuiscono all’individualizzazione della condizione del lavoro, tuttavia, attraverso modalità differenti determinano l’erosione della qualità e della dignità del lavoratore stesso. Il primo concretizza l’esecuzione della prestazione, o meglio della missione, attraverso un dualismo datoriale che si realizza attraverso la stipulazione di due rapporti contrattuali – quello del prestatore con l’agenzia (di fatto il datore di lavoro) e quello dell’agenzia con l’utilizzatore; il lavoro a progetto, invece, si caratterizza per l’estraneità del rapporto dal tradizionale vincolo di subordinazione – orario e luogo – con tutte le ricadute specifiche in termini di diritti riconosciuti al singolo.

     Storicamente parlando, la rivendicazione dei diritti collettivi a tutela della condizione dei lavoratori, così come andava configurandosi nella rinomata fabbrica fordista e nell’Italia del miracolo economico, non è da rintracciarsi soltanto ed esclusivamente in una consapevolezza politica radicata in una specifica classe sociale, bensì essa stessa sembrava prendere il via proprio dalla natura uniforme del rapporto contrattuale e da una attività lavorativa stabile nel tempo e nel luogo. Il tradizionale lavoratore subordinato vive il contesto e lo fa proprio, socializzando le questioni riguardanti la propria condizione alla pari di quella degli altri. È evidente che una condizione del lavoratore che diventa condizione esistenziale sui generis – soprattutto esterna al luogo in cui si esegue la prestazione – rappresenta il terreno fertile per la radicale attenuazione di quella «disputa contrattuale» che da sempre contraddistingue i contraenti del negozio giuridico del lavoro – individuale o collettivo che sia.

     Sembra, quindi, doveroso sottolineare che, nel contesto della produzione industriale sviluppatasi con successo a partire dal XIX secolo, la centralità assunta dalla natura contrattuale dei rapporti di lavoro ha rappresentato, da subito, la situazione ideale all’interno della quale rivendicare e realizzare le istanze del conflitto. Conflitto generato da quella nuova classe sociale che proprio dalla specificità giuridica di tale rapporto prendeva forma. Si può certamente discutere sulle caratteristiche del concetto di conflitto, resta fermo però che la cosiddetta identità di classe, così come emergeva dal tradizionale rapporto di subordinazione, veicolava, in primis, la domanda di tutela da parte di quel singolo contraente debole – il prestatore – contrapposto ad uno estremamente forte – il datore – contribuendo, nell’arco del travagliato processo storico del novecento, al concretizzarsi di una democrazia costituzionale effettivamente fondata sul lavoro, in grado di affermare la legittimità dell’autonomia collettiva (art. 39, Cost.) e, al contempo, di dilatare sensibilmente il raggio di azione della disciplina giuslavorista (per es. con «l’epocale» emanazione dello Statuto dei Lavoratori, l. n. 300 del 20 maggio 1970). Ricordando le parole della dottrina più autorevole in materia:

    "Il movimento sindacale, sin dalle sue origini e al di là delle diverse ideologie che lo ispiravano, ha avuto tra i suoi fini primari quello di ottenere minimi di tutela economica e normativa delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori. Queste finalità furono perseguite dalle associazioni sindacali sia mediante la contrattazione con la controparte imprenditoriale, sia a mezzo di un’azione politica tendente a condizionare gli orientamenti legislativi", (Giugni, Diritto Sindacale, Cacucci Editore, 2006, p. 125).

     Da questa prospettiva, il modello flessibile sembrerebbe, quindi, introdurre una sempre maggiore alienazione di questa cospicua – ma non ancora prevalente – parte di popolazione attiva dalle consuete dinamiche di consapevolezza e di partecipazione collettiva, così come all’effettività dei diritti (al di là dei contenuti normativi). Ma non basta. Lo stesso valore dell’autonomia collettiva e sindacale, che dalla partecipazione attiva alla realizzazione dei contesti organizzativi del lavoro ha sempre tratto la sua naturale legittimazione, potrebbe risultare sempre meno marcato, in funzione inversamente proporzionale al grado di affermazione di tale modello. Questioni di democrazia, dunque.

     Arrivando a concludere questo breve contributo – e ringraziandovi per la cortesia di averlo letto – l’attuale condizione soggettiva del prestatore di lavoro flessibile, così come è andata configurandosi in breve tempo, credo debba comunque essere analizzata avendo in mente alcuni degli esiti concreti che scaturiscono da quella «division du travail social», (Durkheim, vedi: Villa, 18/09/2008, Benecomune.net), figlia, anzitutto, dei mutamenti dei processi produttivi – per esempio, la terziarizzazione ed il prevalente nanismo imprenditoriale – e del conseguente rinnovato rapporto tra capitale e lavoro. Cerchiamo, dunque, di raccogliere tre punti importanti:

1.                la sostanziale de-contestualizzazione dell’individuo dal lavoro, ossia il graduale indebolimento del prestatore quale soggetto protagonista, tanto del processo produttivo, quanto della stessa situazione giuridica, configurando, altresì, la possibilità, per il futuro, di un modello prevalente di «solitudine contrattuale» e di alienazione dall’azione collettiva;

2.                 la sempre più evidente esternalizzazione delle problematiche connesse all’esistenza del lavoratore dal luogo e dalle condizioni in cui si esegue la prestazione alla capacità del singolo individuo di relazionarsi con i crismi del mercato del lavoro, con un margine di successo nell’inserimento strettamente correlato al livello di competenze (quali quelle giuste?).

3.                 un rischio di povertà ed esclusione che varia in funzione del grado di estrazione sociale dal quale si proviene, ovvero nella capacità del nucleo familiare di produrre ammortizzatori sociali di fronte all’incertezza occupazionale ed all’insufficienza del sistema normativo di protezione.

     Solo attraverso una maggiore consapevolezza di tali esiti – a carico dell’individuo e della società – sarà possibile indirizzare una eventuale «interazione tra le reazioni collettive agli effetti negativi imputati al peggioramento della qualità del lavoro, e le interpretazioni sociologiche dell’accaduto» verso «tentativi pratici di migliorare la situazione mediante interventi di vario genere per restituire al lavoro la qualità perduta, ovvero per umanizzarlo più di quanto non sia mai stato, o al minimo, per temperare gli effetti psicologici e culturali del suo deterioramento», (Gallino, Dizionario di Sociologia, Utet, rist. 2006, p. 397). Una consapevolezza – ed una, tanto auspicabile quanto seria, riforma – da raggiungere entro tempi brevi (magari riscoprendo il fondamentale ruolo della concertazione), considerato il prevedibile e non trascurabile incremento, sull’occupazione complessiva, dell’utilizzo di modalità flessibili di lavoro sia durante che in uscita dalla crisi recessiva.

rn

 
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