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In molte occasioni si discute sull’opportunità o meno di emendare articoli della Costituzione. Molte altre volte ci si scalda affinché venga pubblicamente affermata l’intangibilità dei valori in essa contenuti. Pochissime volte, però, si riscontra un impegno per una appropriata lettura e interpretazione della Carta alla luce della storicità del reale, al fine di rendere possibile una riduzione della distanza che intercorre, in molti ambiti, tra la teoria e la prassi.

     1. Ciò par vero per uno dei temi in cima alle preoccupazioni delle persone: quello della ri-organizzazione dei processi produttivi in funzione di una sempre maggiore flessibilità dei rapporti di lavoro. Che di per sé non sembrerebbe spalancare le porte ad una “[…] epoca della fine del lavoro” (Beck 2000). Se non fosse che tale flessibilità avrebbe dovuto comportare nuovi oneri proporzionalmente ripartiti tra lo Stato e i soggetti che dei processi produttivi sono i protagonisti (imprese, lavoratori e sindacati). Che è a dire il riconoscere, prima o poi, la necessaria complementarietà del concetto di flessibilità con quelli di sicurezza ed uguaglianza di condizioni tra i lavoratori. Come è noto – e su questo basta la percezione comune – gli oneri della flessibilità son rimasti quasi ed esclusivamente in capo al soggetto e alla famiglia, mancando clamorosamente l’appuntamento con la costruzione di un modello di opportunità e di crescita delle libertà individuali.
     Ad oggi, i dati parlano chiaro (il 34.3% del mercato del lavoro nel 2008 rispetto al 24,2% del 2004; da spartire tra collaboratori, dipendenti a tempo determinato, atipici, ed autonomi di vario tipo, Istat 2009), la crisi recessiva li accentuerà ed i pensionamenti prossimi venturi indurranno anche i più scettici a ritenere veritiera l’affermazione secondo cui l’incidenza della flessibilità sull’occupazione complessiva è destinata a crescere nei prossimi anni.
     Ma cosa centra la Costituzione? Ebbene si, in questa sede si ritiene opportuno esaltare il dibattito su valori e principi costituzionali nella consapevolezza che questa è la via maestra per stimolare una produzione sociale di significati indirizzati alla risoluzione di alcune asimmetrie e note dolenti che tutt’oggi vigono nel mercato del lavoro e nelle sue regole. Quale sicurezza sociale per il lavoro flessibile? Quali diritti emergenti? Queste alcune delle domande di non semplice risoluzione. Questioni che, a ben vedere, definiscono i contorni di un inedito diritto nel contesto italiano: il diritto di accedere al lavoro (Cfr. Supiot 2003).
     2. Come è noto l’art. 4 novella il fondamentale secondo cui “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Ma quale è stata l’interpretazione prevalente del legislatore? Quale direzione alla luce del paradigma della flessibilità?
     Nel corso dei decenni, come sappiamo, il “diritto al lavoro” ha vissuto sulla scia di una concezione del subordinato, maschio adulto, capofamiglia, prevalentemente poco istruito, calibrando interventi ed istituti nel contesto di un rapporto di lavoro durevole. Il legislatore ha quindi inteso tale diritto come strettamente connesso alle strategie della stabilità occupazionale e del contenimento dei tassi di disoccupazione (Cfr. Liso 2009). Da qui tutte le politiche incentivanti alle assunzioni a tempo indeterminato (sgravi fiscali), la – oggi ritenuta eccessiva – procedimentalizzazione del licenziamento (la sicurezza del posto di lavoro, al di là dell’inalienabile controllo del giudice sulle discriminazioni), quand’anche lo spropositato utilizzo dello Stato inteso quale datore di lavoro (in particolare nel mezzogiorno) e, ultima solo cronologicamente, la stessa flessibilità (ampiamente giustificata come metodo di emersione del sommerso).
     Oggi, siamo proiettati in una realtà molto diversa. Da un lato, una consistente porzione di persone ampiamente tutelate; dall’altro, una flessibilità senza sicurezza che attraversa l’intero mercato del lavoro: dalle mansioni di base agli ambiti specializzati della ricerca scientifica, dal pubblico al privato. Lavoratori, quindi, la cui esperienza frequente è quella dell’entrata e dell’uscita, più o meno rapida, dal mercato del lavoro formale (senza dimenticare il raggiungibile 10% di disoccupazione “mal tutelata” per il 2010, Banca d’Italia).
     Contestualmente, i livelli di formazione sono aumentati, così come la partecipazione delle donne al lavoro. È mutata – o dovrebbe mutare – anche la funzione e la responsabilità sociale delle imprese. Oggi si rileva, infatti, la tendenza alla trasformazione delle imprese non solo in luoghi di produzione , ma anche di formazione (al di là dell’utilizzo strumentale di quelle tipologie contrattuali). Non è più possibile pensare di formare i giovani solamente tra i banchi di scuola e nelle università, alla luce dell’attuale specializzazione e divisione del lavoro. Tuttavia, dagli stagisti ai lavoratori in formazione, fino ad arrivare ai numerosi flessibili in età matura si osserva una condizione soggettiva della flessibilità che assume i connotati di un progressivo depauperamento dei diritti sociali, delle capacità e delle competenze acquisite (Villa, Benecomune.net, “Lavoro e Welfare” 20/01/09).
     Tra queste righe, si ritiene opportuno osservare la necessità di sviluppare un’idea di diritto di accedere al lavoro in grado di tutelare, non solo strategie di tipo macro, bensì anche la più semplice libertà individuale, a fronte di percorsi di vita e di lavoro sempre più segmentati. Libertà che dovrebbe trovare una concreta esplicitazione in politiche di riduzione delle asimmetrie attualmente vigenti in quel mercato (cfr. Ichino 2008), in forme di responsabilizzazione e valorizzazione delle risorse umane da parte dei soggetti sociali (formazione realmente gestita anche da imprese e sindacati), in una prassi realmente praticata e decentrata di politiche attive (al di là delle previsioni e degli intenti, oggi la maggior parte dei centri per l’impiego non va oltre la certificazione dello status) e, perché no, in una qualificazione del lavoro, da parte dello Stato, non solo come impiego formale.
    3. Per meglio intendersi, la considerazione di un diritto di accedere al lavoro, oltre ad una rinnovata riflessione sulle più ampie politiche occupazionali, finirebbe con l’inficiare non poco anche sulla tradizionale impostazione assistenziale della sicurezza sociale veicolata dall’art. 38 della nostra Carta: “i lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di […], disoccupazione involontaria”.
     Questa è l’idea di un lavoratore che subisce passivamente i rischi derivanti da una contingente insicurezza occupazionale. Oggi, siamo – e saremo sempre più – in presenza di un mercato del lavoro che chiede ai soggetti di liberare in pieno le proprie capacità e la libera iniziativa, nell’ambito di una pluralità – o sequenza – di datori e/o committenti. Così, se, da un lato, attendiamo ancora un adeguamento della norma e della spesa pubblica al fine di rendere dignitose le condizioni della precarietà esistenziale (estensione degli ammortizzatori sociali), dall’altro, sembra opportuno evidenziare la necessità di superare una concezione passivizzante del disoccupato e del flessibile. Basti pensare che la previsione, sia della legislazione che della giurisprudenza, è quella secondo cui per il lavoratore precario vale il principio della conservazione e non sospensione dello status di disoccupazione (Villa, nelMerito.com, “Welfare” 07/05/09).
     Così, per allontanarci da queste impostazioni, oltre alla fondamentale attuazione e implementazione delle politiche attive finalizzate alla reintroduzione nel mercato, sembrerebbe indispensabile indirizzare la riforma del sistema di protezione sociale nella direzione di un riconoscimento del lavoro non di mercato durante i periodi di inattività (prendendo in considerazione l’eventualità di sussidi e contributi previdenziali per il lavoro in famiglia, la formazione indipendente e il volontariato), trasformando gli oneri a carico dello Stato (o degli eventuali soggetti privati) da mero trasferimento per l’indigenza a vera e propria forma di investimento sociale. Infatti, con questa visione di massima, oltre a modernizzare il sistema di welfare attualmente in vigore, si produrrebbero anche evidenti effetti benefici di utilità sociale. Un orientamento di policy che, oltre a concretizzare il diritto all’assistenza, potrebbe contribuire alla partecipazione sociale attiva e/o alla crescita professionale, configurando un importante diritto di accedere al lavoro di mercato e non.
 
Riferimenti bibliografici:
 
1. Beck, U., 2000, Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro, Torino, Einaudi;
2. Ichino, P., Scenari di riforma del mercato del lavoro italiano, in “Italianieuropei”, n. 04/2008; 
3. Istat, Rapporto annuale. La situazione del Paese nel 2008, Roma;
4. Liso, F., 2009, Il diritto al lavoro, in “Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali”, n. 121/2009;
5. Supiot, A., 2003, Il futuro del lavoro, Roma, Carocci.
6. Villa, A., 2009, Flessibilità e nuove forme di sicurezza sociale, in “Queste Istituzioni”, n. 153/2009.
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