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Il tema della precarietà del lavoro e delle riforme del welfare, così attuale dopo il pacchetto di iniziative approvato in finanziaria, non può che essere affrontato ad un doppio livello: locale e globale.

Una riflessione sviluppata solo sul piano locale finisce per non cogliere le ragioni profonde della trasformazione che stiamo vivendo con il rischio di sollecitare soluzioni che non riescono veramente ad incidere sul problema.
La causa profonda di queste trasformazioni è l’integrazione globale dei mercati finanziari, del lavoro e dei beni e servizi venduti. Nel vecchio sistema preglobalizzazione l’equilibrio tra tre forze (le imprese, lo stato, le rappresentanze sindacali) assicurava il perseguimento congiunto di sviluppo economico e coesione sociale.
Con l’integrazione globale dei mercati il vecchio equilibrio salta perché il potere contrattuale delle imprese diventa enormemente maggiore di quello degli altri due attori. Un esempio è la recente controversia tra ministro del lavoro e call center. Alla minaccia del ministro di rafforzare il grado di tutele dei lavoratori del settore le imprese rispondono minacciando la delocalizzazione delle attività e la conseguente perdita di lavoro di migliaia di dipendenti in Italia.
La causa profonda di queste turbolenze è dunque la miseria di intere popolazioni nei paesi in via di sviluppo. Questa miseria induce tali lavoratori ad offrirsi sul mercato del lavoro con salari di riserva (salari minimi ai quali sono disponibili ad essere occupati) di gran lunga inferiori a quelli dei lavoratori italiani. Fino a che questo gap non sarà colmato le turbolenze continueranno. La questione fondamentale è se il gap sarà colmato verso l’alto (miglioramento delle tutele e delle condizioni di lavoro nei paesi poveri) o verso il basso (precarizzazione e riduzione delle tutele nei nostri paesi). Nel frattempo inoltre c’è il problema di come gestire da noi questa transizione verso un nuovo equilibrio mondiale. Fermo restando il suggerimento per tutti ad investire in abilità e competenze al fine di non restare intrappolati nella parte bassa della “scala dei talenti”, dove la concorrenza salariale dei lavoratori dei paesi del sud del mondo è più forte, il problema resta.
Se si è in grado di comprendere questo scenario di fondo appare del tutto chiaro che è necessario intervenire in due modi: con una soluzione strategica a livello mondiale e con una strategia per gestire la transizione nel nostro paese.

Non esiste oggi altra strada più efficace che cambiare le cose dal basso e attraverso i consumi e i risparmi che sono al centro del funzionamento della vita economica e della sopravvivenza delle imprese. Non esiste un sistema perverso contro il quale i nostri sforzi sono vani perché il sistema siamo noi, o meglio il sistema si regge sulle nostre scelte di consumo e di risparmio.
Sul secondo piano la questione è molto più complessa. Una rigidità eccessiva nella difesa delle tutele del lavoro in questa fase storica vuol dire perdere ancora investimenti, occupazione ed imprese.

A chi è sceso in piazza domenica per protestare contro le misure sul welfare suggerisco che la vera radicalità oggi è quella di impegnarsi molto più a fondo sul primo piano (responsabilità sociale dei consumi e dei risparmi) rimanendo più duttili sul secondo. Non si convincono le imprese a dare maggiore tutela e dignità al lavoro solo scendendo in piazza (anche se ciò può testimoniare un impegno e una sensibilità) ma anche e soprattutto cambiando i modelli di consumo, premiando i più socialmente responsabili e rendendo costose in termini di perdita di quote di mercato le strategie di precarizzazione della forza lavoro.rn

Nel frattempo, per risolvere il problema della transizione, dobbiamo costruire le migliori strategie possibili per conciliare mantenimento della competitività, capacità di creare posti di lavoro e orientamento verso la stabilità occupazionale in uno scenario economico mondiale così complesso ed integrato. Chi ha idee e progetti concreti e non velleitari più efficaci di quelli emersi nella dialettica tra governo, economisti e opposizioni si faccia avanti.

Il primo tipo d’intervento non consiste nel mettere al bando i prodotti provenienti da questi paesi ma, al contrario, nel “votare con il portafoglio” per quei beni e servizi ivi prodotti che sono all’avanguardia dal punto di vista della sostenibilità sociale ed ambientale creando in tal modo incentivi per le imprese ad andare in questa direzione. In questo senso gli approcci del consumo socialmente responsabile, del commercio equo e solidale e dei fondi d’investimento etici colgono nel segno ma questa cultura deve diffondersi molto di più. Le istituzioni possono incoraggiarla inserendo i criteri di sostenibilità sociale ed ambientale negli appalti ma soprattutto stimolando e promuovendo il mercato del rating sociale in modo da aumentare l’informazione a disposizione dei consumatori.

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