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Le conclusioni e le riflessioni del vertice della FAO sembrano rivelare che, come nelle più tipiche storie dell’incomunicabilità tra specializzazioni, ancora una sintesi tra gli esperti di tecnologia agraria e di altre discipline (economia ed altre scienze sociali) è al di là da venire. E la bacchetta magica per risolvere il problema della povertà estrema, al di là dei problemi di accesso e potere di mercato, è l’innovazione e l’aumento delle rese.

Il disco è sempre lo stesso da decine di anni a questa parte. Centinaia di milioni di persone vivono sotto la soglia della povertà assoluta (il dollaro al giorno in parità di potere d’acquisto che è diventato nel 2008 un dollaro e venticinque)? Ci vuole più tecnologia ed innovazione per aumentare la resa dei prodotti agricoli. Purtroppo dopo la “rivoluzione verde” degli scorsi decenni la fame non sparisce con grande sorpresa dei sostenitori di questa soluzione. Invece di ripensare il problema, i sostenitori delle “magnifiche sorti progressive” ripropongono, a ondate, nuove drastiche soluzioni in grado di sconfiggere il problema alla radice. Arrivano tecnologie sempre nuove, le biotecnologie promettono miracoli. Ma la fame non scompare. Anzi dopo la crisi finanziaria globale si stima un aumento di circa 200 milioni della popolazione mondiale al di sotto della soglia di povertà assoluta.rn

Nonostante le lezioni del passato il nuovo vertice ripropone il solito mantra. Il problema non è sconfitto ma, anzi, sembra aggravarsi? Dobbiamo aumentare ancora di più la produttività esattamente come quando pensiamo che per fronteggiare problemi di depressione che diventano sempre più di massa nei paesi occidentali ci vogliano nuovi farmaci antidepressivi più forti ed efficaci.

C’è qualcuno che si fa avanti per spiegare ai fan delle magnifiche sorti progressive che l’aumento delle rese e dell’offerta di prodotti agricoli si trasforma, in mercati competitivi dove la domanda di prodotti alimentari non è molto elastica, in riduzioni dei prezzi sui prodotti finali (lo insegniamo agli studenti di primo anno di economia)? E che, seppure il valore creato dalla filiera (che va dai produttori di base, agli intermediari locali, agli importatori e ai dettaglianti finali) non diminuisce ma resta costante, la sua distribuzione tra gli attori dipende dal gioco dei poteri contrattuali (e quindi a piccoli produttori non organizzati che trattano con intermediari locali monopolisti restano sempre le briciole)? Che si possono raggiungere rese meravigliose dei terreni ma se c’è una strozzatura nella distribuzione, nelle vie di trasporto e nel controllo della distribuzione stessa i piccoli produttori di fatto non hanno accesso al mercato? In sostanza il progresso tecnologico in agricoltura esiste ma non sempre esso nelle dinamiche di mercato competitive va ad arricchire i produttori e, all’interno della filiera, il più va a chi possiede i diritti proprietari sugli asset che migliorano la produttività (macchinari, biotecnologie, ecc.)

La lotta alla marginalità e all’esclusione per il miliardo di “incagliati” si gioca dunque soprattutto sui terreni dell’accesso al credito, all’istruzione. Su quelli dell’aumento di potere contrattuale lungo la filiera attraverso la creazione di associazioni e cooperative di produttori di base che risalgono la catena del valore aggiunto (esattamente quello che è successo anche in Italia dal dopoguerra ad oggi). La stessa FAO lo riconosce e lo sa benissimo, avendo avviato un programma di formazione per aiutare i piccoli produttori a certificare i propri prodotti in una di quelle filiere (bio, denominazione di origine locale, equosolidale) che aggiungono valori intangibili incorporando valori sociali ed ambientali e consentono di vendere a prezzi maggiori. Oltre a promuovere percorsi di upgrading tecnologico, servizi all’export e di auto sviluppo per i produttori associati.

rnNonostante queste timide aperture riscontriamo che la distanza tra la saggezza di chi lavora sul terreno e i proclami delle grandi organizzazioni internazionali è ancora ampia.

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