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Martedì 16 febbraio iniziava il Festival di Sanremo con un 47% di share (povera Italia!), e il giorno dopo la quaresima.
rnStrana coincidenza di date: il trionfo dello spettacolo più mondano (e insipido) dell’anno e l’inizio del tempo della purificazione da tutte le cose vane; la baraonda mediatica di Pupo, mamma Clerici, Morgan che non c’è, l’ultimo (si spera) dei Savoia che affossa nella vergogna e nel ridicolo la memoria già infangata dei padri, da una parte, e dall’altra la cenere del mercoledì che ci ricorda che fine faremo tutti prima o poi.

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Quasi nessuno ha sottolineato questo paradosso tipicamente italiano, di questo nostro popolo così tanto cattolico e così radicalmente pagano nello stesso tempo, cattolico e mafioso, cattolico e cafone, cattolico e ateo, col santino nel portafoglio e il televoto e il gratta e vinci in mano. 

Il filosofo Pierre Klossowski dice che il processo di mostruosizzazione richiede che si impari a compiere il male con crescente insensibilità, apatica-mente.
Si diventa mostri così, piano piano, senza accorgersene.
Io credo che l’essere umano stia diventando mostruoso attraverso la devastazione progressiva del linguaggio, la resa incondizionata del pensiero alla chiacchiera, e cioè ad un dire che perde ogni contatto con la realtà, e trova il suo unico fondamento nella propria diffusione e nella propria ossessiva ripetizione, che rendono ogni diceria o calunnia sovrane incontrastate del pubblico, ovviamente per la brevissima durata del loro regno.
 
In tal senso Martin Heidegger dice: “La totale infondatezza della chiacchiera non è un impedimento per la sua diffusione pubblica, ma un fattore determinante”.
 
La nostra società sembra ormai nutrirsi quasi esclusivamente di parole vuote.
E la ripetizione “indifferente”, e appunto “apatica”, di questo crimine contro natura sta producendo la nostra mostruosità.
Vorrei tanto che tutti noi tornassimo a comprendere che questa dilapidazione del potere della parola non è affatto innocua, ma ci devasta, sfibrando il nostro essere fino ad avvelenare e a corrodere i nostri tessuti organici, le nostre cellule, il bios cioè, e non soltanto la psyke.
 
Vorrei che riascoltassimo ciò che dice dell’uso della parola colui che per i cristiani è la Parola stessa, il Pensiero stesso che parla di sé: “Ma io vi dico che di ogni parola inutile (verbum otiosum) gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio; poiché in base alle tue parole sarai giustificato e in base alle tue parole sarai condannato” (Mt 12,36). Ogni parola oziosa (argon, in greco), che non sia cioè operativa, piena di energie, e quindi efficace, in quanto elaborata, pensata e perciò viva e datrice di vita, ci toglie le forze, ci vampirizza, e ci lascia in preda ai processi accelerati della mostrificazione, lungo i quali paghiamo già l’amarissima pena della nostra disumanizzazione, finché nel giorno del giudizio tutti i conti saranno definitivamente regolati, grazie a Dio, e tutte le parole che avremo pronunciate saranno valutate una per una.
 
La tradizione buddhista elenca 32 categorie di argomenti oziosi.
Il Buddha considera inutile e nocivo parlare di “re, ladri, ministri, eserciti, carestia e guerra, il mangiare, il bere, il vestire e la casa, profumi, parenti, veicoli, città, relazioni finite, perdite o guadagni mondani, e così via”.
L’intero universo cioè della comunicazione di massa, della pubblicità, e della chiacchiera “culturale”, “politica”, o semplicemente da bar e di strada.
Ci potremmo chiedere: ma allora di che cosa dovremmo parlare?
A me verrebbe da rispondere d’istinto: ma della verità, e di cos’altro? Di ciò che chiede pressante-mente di essere interrogata, per dirla ancora con Heidegger, e quindi di ciò che ci dona, se amata e ascoltata, la nostra vera umanità, la felicità e la salute, una vita più integra e un pensiero più vivace.
 
Ma credo che prima e contemporaneamente dovremmo riscoprire la bellezza del silenzio, l’effetto curativo del ridurre l’inquinamento acustico della chiacchiera mondana.
Kierkegaard diceva che se fosse stato un medico avrebbe condotto subito l’umanità al silenzio, per curarla dei suoi gravissimi mali.
Ed eravamo nel 1850 in Danimarca….
 
Il silenzio però è un lungo apprendimento, non si tratta solo di spegnere la TV per qualche ora, ma di scoprire giorno dopo giorno chi diventiamo, quando incominciamo a spegnere tutti gli altoparlanti interiori che presumono già di sapere chi siamo, e ci predisponiamo così, ogni giorno più attenti e silenziosi, ad ascoltare l’inaudito, ciò che ancora non fu mai udito e che pure ci sta parlando proprio ora.

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