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Con sano realismo – mentre era attivamente impegnato a favore della nascente carta dei diritti universali dell’uomo – Jacques Maritain sottolineava come l’accordo tra mondi culturali diversi può compiersi non tanto su basi teoretiche, quanto su una convergenza pratica capace di tutelare alcuni diritti fondamentali dell’uomo, a prescindere dalle diverse ragioni ideologiche che li sostengono.

A più di sessant’anni di distanza, questa riflessione di Maritain merita ancora di essere ripresa con attenzione, soprattutto alla luce di alcuni dibattiti che caratterizzano il nostro quotidiano e che siamo soliti veder rubricati sotto l’etichetta «questione antropologica». Una prima rilettura di questo avvertimento di Maritian potrebbe risultare scoraggiante: in una società pluralista possiamo trovare una convergenza pratica sulle grandi regole (non uccidere l’innocente), ma ben più difficilmente sulle ragioni di fondo di tali regole. In altre parole, sulle questioni più dibattute oggi (dignità della vita umana, origine dell’uomo, rapporto tra cervello e mente…) non ci sarebbero i margini per mettere d’accordo le diverse anime di una società. Ma se questo è vero, se non si dà un accordo generale sulle grandi questioni di fondo, com’è possibile che si possa sperare di promulgare buone leggi? L’annotazione di Maritain può però essere letta anche da un altro punto di vista: essa può segnalare la necessità di evitare i dibattiti astratti – le teorie sono destinate inevitabilmente a scontrarsi – favorendo invece occasioni in cui riflettere sulle grandi questioni di senso dell’umano a partire dalle esperienze concrete della vita. La convergenza nella società può essere quindi concepita come punto di partenza e non come punto di arrivo ideologico; la riflessione antropologica (l’interrogarsi sulle costanti che caratterizzano l’esistenza di ogni persona) può infatti individuare gli snodi del vivere che maggiormente interrogano tutti gli uomini e che costituiscono un naturale luogo di solidarietà: chi non si è mai confrontato con una relazione che si infrange e chi non ha mai gustato la forza unitiva di una confidenza fatta o accolta? Chi non ha mai dovuto fare i conti con ritmi troppo incalzanti, con la quadratura del cerchio tra i tempi della vita privata e di quella lavorativa? Chi non ha mai vissuto la delusione di un tradimento o il mistero di un perdono? Chi non si è almeno una volta rammaricato per aver sbagliato i propri conti mancando un traguardo che sembrava a portata di mano? Chi non ha provato un moto di insofferenza verso uno sconosciuto, verso chi si presenta da subito come distante e diverso? Sono soltanto alcuni degli snodi che, pur in forme diverse, caratterizzano l’ordinarietà delle nostre giornate. Ma se questo è il terreno comune in cui ciascuno può riconoscersi, allora proprio da queste convergenze pratiche può ripartire una riflessione sull’uomo capace di unire anziché di dividere.
Un laboratorio di questo tipo viene proposto dal Centro Studi Veneto J. Maritain, con il programma di ricerca in «Antropologia applicata» promosso e sostenuto dal Progetto Culturale della CEI e dalla Regione Veneto.

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