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Il recente Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, richiamandosi alla Gaudium et spes, osserva cheper bene comune s’intende “l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono, sia alle collettività sia ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente” (GS, n. 26).

La riflessione che precede – e segue – la sintesi icastica del Concilio si è spesa in vario modo per additare i contenuti di una nozione come appunto quella di “Bene comune”, che è al centro dell’attenzione della 45° Settimana Sociale dei Cattolici italiani. Basti ricordare le incisive riflessioni de La Persona e il bene comune di Jacques Maritain del 1947. Proprio Maritain ritenne all’epoca di dover dedicare un’intera pagina per tentare una definizione, lasciandola peraltro aperta, quasi a suggerire che, in fondo, si tratta di una nozione elastica ed inclusiva di tutte le positività che a vario livello gli uomini sanno mettere in campo per sostenersi a vicenda nella crescita come persone. Con saggezza il Concilio ha potuto privilegiare l’idea dell’“insieme di condizioni”, quasi a voler sottolineare la dinamicità che caratterizza la maturazione della persona e della società. È in ogni caso implicito che, a fondamento del dibattito sulle voci concrete del paniere che costituisce questo “insieme di condizioni”, vi sia la consapevolezza di dover lavorare insieme ad un progetto comune. Si tratta a ben guardare di un implicito per nulla irrilevante, ma al contrario decisivo. Si suppone cioè che lavorare insieme sia una necessità strutturale per una società, non un optional né un gesto di magnificenza da parte di una maggioranza (politica o culturale che sia) verso le minoranze. In effetti, la capacità di cooperare – il che non significa affatto il dover pervenire a progetti o percorsi unanimemente condivisi – altro non è che la cartina tornasole del grado di amicizia civile che qualifica una società; per questo si tratta di una coordinata irrinunciabile: può esistere un bene comune tra persone e gruppi che male si sopportano a vicenda? Quanto più le diverse anime di una società – certamente confidando gli uni nelle buone intenzioni degli altri – sono capaci di un confronto pacato sulle diverse voci che sostanziano il bene, tanto più la dimensione comune può espandersi ed arricchirsi. Viceversa, quando il dibattito si deteriora in un confronto tra buoni e cattivi, quando il preliminare del gioco è squalificare l’avversario per avere il campo libero, ecco che l’ispirazione profonda del bene comune è tradita.
Si dirà che “dialogo” e “mediazione” sono ancora una volta le parole magiche. È vero, purché si faccia un passo avanti e si realizzi che entrambe sono cose che si fanno, non cose che si teorizzano, restando poi chiusi a ragionare nella cerchia di quelli che la pensano come noi; forse non sono neppure cose che si addomesticano, selezionando a priori – ciascuno per parte propria – il confine delle idee e delle proposte che si è disponibili a sentire. Certamente, per riprendere ancora Maritain, occorre diffidare “dai dialoghi in cui ognuno va in estasi ascoltando le eresie, le bestemmie e le sciocchezze dell’altro. Non sono affatto fraterni. Non bisogna confondere «amare» con «cercar di piacere»” (Le paysan de la Garonne, 1966); ma appunto altro è la disponibilità all’ascolto a tutto campo, altro è l’andare in estasi per ogni proposta. Forse allora di due cose c’è urgente bisogno per un rilancio pratico di quel lavorare insieme che struttura il bene comune: la ricostruzione di un clima di amicizia civile, tale per cui nessuno sia escluso o a priori emarginato, e una formazione solida, che assicuri anche quella capacità di pensiero che appunto consente di distinguere le buone proposte dalle sciocchezze.
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