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Il dibattito che si è riacceso in Italia sull’ora del Corano nelle scuole, con il consenso di Gianfranco Fini, Massimo D’Alema e del cardinale Renato Martino, merita attenzione. Siamo infatti dinanzi ad una proposta apprezzabile perché valorizza l’Islam ma che rischia, allo stesso tempo, di essere inserita in un quadro di multiculturalismo separatista

invece che in una più coraggiosa prospettiva intercultuale che mette le religioni in dialogo tra loro. Solo una scuola che favorisce e promuove il dialogo interreligioso può rafforzare il fondamento della civiltà e della convivenza sociale.rn

«Ogni bambino ha il diritto di leggere il Libro sacro degli altri bambini», ha affermato Amos Luzzatto, leader storico delle comunità ebraiche, poiché fino a quando i cattolici leggeranno solo il Vangelo, gli ebrei solo la Torah e i musulmani solo il Corano, sarà impossibile realizzare una vera integrazione a scuola e nella società. La presenza crescente delle seconde generazioni nelle scuole italiane mostra, con l’evidenza dei numeri, che il mosaico delle fedi richiede ormai il passaggio dall’ora di religione cattolica o di analoghe altre ore di religione (ebraica, musulmana, buddhista, induista, ortodossa, valdese, sikh, ecc..) a una situazione nuova. Questa sarebbe una vera riforma di civiltà, insieme al voto per gli immigrati e ad una nuova legge sulla cittadinanza.

Oggi l’alfabetizzazione religiosa non può essere più solo di tipo confessionale, se vogliamo evitare l’esito della balcanizzazione nel nostro Paese. È la lezione permanente dell’incontro interreligioso di Assisi del 27 ottobre 1986, voluto da Giovanni Paolo II, che dovrebbe essere introdotta finalmente nelle scuole come simbolo di futuro. A scuola non servono tante educazioni religiose parallele, ma una alfabetizzazione interreligiosa (cioè un’ora delle religioni) per tutti i bambini. Tale insegnamento interculturale dovrebbe rispettare due condizioni essenziali: lo studio della religione non come fede ma come cultura, e la conseguente adozione di un metodo comparativo (quale ad esempio il Syllabus di Bradford) per poter confrontare le religioni tra loro.

Ci rendiamo conto che la svolta che auspichiamo può sembrare esagerata o improponibile ma a noi pare coerente con i principi sia dell’educazione che del Cristianesimo. A scuola deve essere valorizzato il pluralismo delle culture, delle etnie e delle religioni, non separando le diverse identità in tanti ghetti ma mettendole in comunicazione tra loro e favorendo la conoscenza reciproca e il confronto critico. La scuola non può aver paura della differenza e meno che mai delle differenze religiose poiché il diritto alla libertà di religione è il primo di tutti i diritti. È vero che l’Italia è per storia e per tradizione un Paese cattolico o – più precisamente – cristiano, ma ciò non può essere interpretato come “chiuso” al dialogo e allo scambio reciproco con altre appartenenze religiose.

Sarebbe ben strano se in nome della fede si giungesse a impedire la prospettiva dell’educazione interculturale e interreligiosa a scuola.

In fondo ciò che stiamo indicando è già scritto nella positività intrinseca dell’intercultura come grammatica di civiltà e paradigma pedagogico. D’altra parte, se questo principio vale per tutti i saperi, perché non dovrebbe valere anche per la religione a scuola? Ecco, dunque, la ragione per cui nella nostra Italia plurale, dove coesiste il mosaico delle fedi, è opportuno che i ragazzi conoscano l’alfabeto delle religioni, del Dio degli altri, dei simboli e dei riti, dei testi sacri, dei luoghi di culto e dei modi di pregare, di fare festa, di raccontare eventi e personaggi che meritano rispetto.

Quando, dinanzi a tale prospettiva, si risponde facendo leva unicamente sulla paura di perdere qualcosa, di generare confusione, di evitare il contatto tra identità differenti, ebbene, la mia impressione è che con questo spirito di chiusura e di arroccamento non si vada da nessuna parte… mentre intorno a noi tutto sta cambiando e il futuro assume direzioni non scelte e non governate.

rn

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